Trump: il predicatore, il bullo, l’oligarca. Tre volti di un solo potere

 

Foto da Wikipedia

“Non è necessario dire la verità, è necessario che ti credano.”  Niccolò Machiavelli
"La politica trasformata in spettacolo è la trappola più insidiosa per la democrazia." Domenico Susi

Donald Trump non è una deviazione del sistema. È la sua sintesi. Non nasce ai margini della storia americana, ma nel suo centro più profondo. È l’erede di un filone nazionale che unisce il culto della personalità, la religione del successo, la violenza simbolica e un’economia del potere che ha perso ogni limite morale.

Per capire Trump, bisogna scomporlo. Dentro di lui convivono figure archetipiche che attraversano la storia moderna: il predicatore, il bullo, l’oligarca. Volti diversi di un potere che non si limita a governare, ma vuole credere, dominare, accumulare. In lui si intrecciano spiritualismo americano, darwinismo sociale e capitalismo selvaggio. E nel mondo che oggi lo guarda – tra imitazione, timore e fascino – ognuno ritrova un frammento di sé.

Il predicatore: l’America come religione del sé

Negli Stati Uniti la religione non è solo fede. È spettacolo, identità, impresa. La predicazione evangelica – televisiva, performativa, personalistica – ha forgiato milioni di coscienze nel Novecento. E Trump ne è stato allievo, anche se a modo suo.

Fin da ragazzo, fu influenzato da Norman Vincent Peale, pastore presbiteriano e autore di The Power of Positive Thinking. Peale non predicava il Vangelo, ma l’ottimismo performativo: non ciò che sei, ma ciò che credi di essere, ti definisce. Trump lo frequentò, lo ascoltò, ne assimilò il messaggio. Non come fede, ma come strategia.

Da allora, la realtà è diventata per lui negoziabile. Le perdite non esistono, i fallimenti sono altrui, la verità è flessibile. Se qualcosa va storto, è il mondo che sbaglia. Se un giudice lo condanna, è il sistema che trama. L’identità si costruisce non con i fatti, ma con la volontà.

In questo senso, Trump è un predicatore laico. Trasforma ogni comizio in un sermone motivazionale, ogni folla in una congregazione. Non offre soluzioni, offre appartenenza. Il messaggio è semplice e profondo: “Credete in me e sarete salvi.” Non importa da cosa.

Il bullo: la violenza come stile politico

Il secondo mentore di Trump fu Roy Cohn, avvocato spietato, emerso nei processi maccartisti e diventato poi il legale degli ambienti più duri dell’alta società newyorkese. Cohn non cercava giustizia: cercava il dominio. Insegnò a Trump tre regole fondamentali: non difenderti mai, attacca sempre; mai ammettere una colpa; se sei sotto accusa, distruggi l'accusatore.

Questa mentalità da guerra perenne è diventata la grammatica politica di Trump. Ogni critica è un tradimento. Ogni dissenso è una cospirazione. Non si negozia, si aggredisce. Non si spiega, si urla. È una politica che rifiuta la mediazione democratica e si nutre di conflitto permanente.

Trump ha ridefinito la comunicazione pubblica come una forma di bullismo strutturato. Dà soprannomi ai rivali, li ridicolizza, insinua, diffama. Conduce cause infinite, anche se sa che le perderà: l’obiettivo non è vincere nei tribunali, ma nei titoli dei giornali.

In un’epoca in cui il dialogo politico si è trasformato in performance, questa strategia paga. Trump non cerca di convincere, ma di intimidire. E il risultato è una leadership basata sulla paura e sul senso di appartenenza armata. 

L’oligarca: il capitalismo senza legge

Molto prima di diventare presidente, Trump era già un marchio. La sua fortuna non è solo immobiliare, è simbolica. “Trump” è diventato un logo che garantisce potere, status, accesso. Un nome da stampare sulle torri, sui casinò, sulle bottiglie d’acqua. Ma dietro questo brand si nasconde un’architettura finanziaria ambigua.

Negli anni ’90, quando molti imprenditori americani fuggivano da un’Est Europa instabile, Trump apriva le porte agli oligarchi. I suoi immobili divennero parcheggi perfetti per capitali in cerca di pulizia. Le sue torri un rifugio per i nuovi ricchi post-sovietici. Il suo nome un lasciapassare per chi voleva legittimarsi nell’economia occidentale.

Così Trump entrò in contatto con ambienti opachi, dove politica e criminalità si mescolano. Non servono prove dirette di illegalità per cogliere il senso di questa rete: il potere non si conquista solo con i voti, ma con le alleanze invisibili, i soldi che non si vedono, i favori che non si dimenticano.

Trump ha portato nella Casa Bianca questa visione di business: lo Stato come azienda, la legge come ostacolo, la diplomazia come scambio. E in questo modello si sono riconosciuti molti altri leader: Putin, Erdogan, Modi, persino figure europee come Giorgia Meloni, che, pur rappresentando un contesto differente, sembrano condividere un approccio pragmatico al potere, basato sull’identità forte, sul nazionalismo e su una comunicazione diretta che evita le mediazioni tradizionali.

Un confronto con Berlusconi: due epoche, un modello

In Italia, il parallelo più naturale con Trump è Silvio Berlusconi, altra figura emblematica della politica-mediatica contemporanea. Come Trump, Berlusconi è stato un imprenditore-mediatico che ha trasformato la politica in un’estensione della propria immagine.

Entrambi hanno costruito un potere personale fondato sul carisma e sull’uso massiccio dei media. Berlusconi con le sue televisioni private, Trump con i social network e la televisione reality. Entrambi hanno sfidato la separazione tra pubblico e privato, tra affari e politica, facendo del conflitto d’interessi una norma non dichiarata.

Anche nello stile comunicativo esiste una convergenza: il linguaggio semplice, diretto, spesso aggressivo; la capacità di trasformare gli attacchi in rally di consenso; la narrazione del “popolo contro i nemici”, siano essi magistrati, giornalisti o avversari politici.

Tuttavia, le differenze sono altrettanto importanti. Berlusconi ha dominato un sistema politico già consolidato, adattandosi e influenzandolo, mentre Trump ha sovvertito un sistema molto più complesso, mettendo in crisi istituzioni secolari. Berlusconi ha governato per lunghi anni, mentre Trump ha oscillato tra il potere e la marginalità, mantenendo però un’influenza duratura sul discorso pubblico.

In entrambi i casi, però, emerge un tratto comune: la personalizzazione estrema del potere, che rende fragile la democrazia e alimenta divisioni profonde.

Il ruolo di Domenico Susi: l’allarme precoce

Il Senatore Domenico Susi fu tra i primi a intuire i pericoli di questo modello di potere in Italia. Fu un osservatore attento della trasformazione della politica in spettacolo e del carisma mediatico come strumento di dominio. Susi denunciò come queste dinamiche rischiassero di erodere le fondamenta della democrazia, sostituendo il confronto politico con la polarizzazione e la semplificazione populista.

Le sue analisi, spesso sottovalutate all’epoca, appaiono oggi più attuali che mai. Aveva compreso che il pericolo non stava tanto nelle singole figure, ma nel metodo: un potere costruito sul culto della personalità, sulla manipolazione della verità e sulla delegittimazione delle istituzioni.

Il trumpismo oggi: un metodo, non solo un uomo

Il trumpismo non è solo la somma degli atteggiamenti e delle azioni di Donald Trump. È una strategia di potere che ha trovato terreno fertile in un’epoca di crisi e smarrimento. Vive di polarizzazione, identità ferite, sogni di rivincita. Si adatta, si maschera, si moltiplica. Può perdere le elezioni, ma non sparire. Perché non abita solo nei palazzi del potere, ma nel desiderio collettivo di risposte semplici e capri espiatori chiari.

Questa forma di potere si è diffusa e ha ispirato molte leadership in tutto il mondo, da Bolsonaro a Orban, da Milei a Meloni. Non per le loro politiche specifiche, ma per il modo di occupare la scena pubblica, di rivendicare un’identità forte e di usare la comunicazione come arma.

Oltre l’uomo, la sfida della democrazia

Sconfiggere Trump o leader simili alle urne non basta. Occorre disinnescare ciò che li rende possibili: il culto della vittima potente, la confusione tra libertà e impunità, la fascinazione per il leader che parla “come noi”, ma comanda come un padrone.

Trump è lo specchio di un’epoca che ha smarrito la distinzione tra realtà e narrazione, tra consenso e verità. Guardarlo significa guardarsi. E chiedersi quanto di lui abbiamo già accettato.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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