Nomina dei 140 dirigenti al MiC: opacità, arroganza e caos in un ministero ridotto a teatrino di potere

 


«La verità non si nasconde dietro il silenzio, ma si costruisce con la trasparenza.» - Italo Nostromo 

Il Ministero della Cultura riesce ogni volta a sorprendere. In peggio. Alle 21 del 18 luglio, un comunicato firmato da Alessandro Giuli (foto facebook) annuncia trionfalmente la nomina di 140 nuovi dirigenti. Ma c’è un dettaglio – non secondario – che manca: i nomi. Nessun elenco allegato, nessuna spiegazione, zero trasparenza. Solo un’autoproclamazione da Stato sovrano, come se il ministero fosse un feudo personale e non un’istituzione pubblica.

Un’ora dopo, alle 22, la CISL è la prima a esplodere: «Diramare un comunicato senza i nomi è assurdo». Ed è difficile darle torto: un atto simile è una dichiarazione di guerra alla trasparenza, un insulto all’intelligenza collettiva, un segnale preoccupante di arroganza burocratica e disprezzo istituzionale.

E mentre si affastellano le domande (chi sono questi 140? Come sono stati scelti? Con quali criteri?), cala il sipario su quella che dovrebbe essere la guida del patrimonio culturale italiano. Altro che guida: il MiC è un palcoscenico di nomine opache, scelte discutibili, comunicazione evanescente e gestione personalistica.

E come se non bastasse, arrivano anche i cinque “super direttori” dei musei, partoriti in gran segreto, senza confronto né condivisione. Figure di vertice catapultate al comando di istituzioni strategiche, in barba a ogni procedura trasparente. Chi sono? Che competenze hanno? Perché proprio loro? Mistero. E mentre il settore aspetta risposte, dal ministero arrivano solo eco lontane e slogan sgonfi.

Siamo davanti all’ennesima sceneggiata ministeriale. Perché questo è diventato il MiC: non un centro di governo della cultura, ma una macchina per la distribuzione di incarichi opachi, una centrale di potere autoreferenziale e sfuggente, dove a regnare è l’incertezza, non la competenza.

Il paragone tra Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli è inevitabile. E tragicamente comico. Il primo, dopo mesi di retorica patriottarda, è tornato al TG1 come "inviato" — un ruolo che, a quanto pare, svolge da figura mitologica: esiste ma non si vede, è pagato ma non si trova. Un giornalista-fantasma, come la sua gestione ministeriale: tante parole, pochissimi fatti, nessuna eredità.

Il secondo, Giuli, arriva con l’etichetta di filosofo post-ideologico, uomo di visione. E invece si presenta con un comunicato senza nomi, un elenco secretato come fosse un dossier dei servizi, e una gestione che profuma più di corte interna che di politica culturale. Se questo è il nuovo corso, siamo al paradosso: dal nulla di Sangiuliano siamo passati all’opacità attiva di Giuli. Dalla padella alla brace, ma una brace fredda, dove brucia solo la credibilità del ministero.

E mentre tutto questo accade, le riforme promesse da Giorgia Meloni – trasparenza, rinnovamento, discontinuità – rimangono parole vuote, archiviate come slogan da comizio. Come la più parte delle riforme annunciate dal governo, anche quella della cultura si è arenata prima ancora di partire. Tutto fermo, tutto fumoso. L’unica cosa che si muove è la giostra delle nomine, silenziose e blindate, come se il MiC fosse un club esclusivo, non un’istituzione della Repubblica.

La cultura vera, quella che sta nei musei, nei teatri, nelle biblioteche, nei siti archeologici, è lasciata sola. E resiste solo grazie a operatori, tecnici e professionisti che ogni giorno tengono in piedi il sistema malgrado il ministero, non grazie a esso.

Il sospetto, ormai più che fondato, è che il MiC sia diventato un laboratorio di occupazione del potere e non di visione culturale. Un posto dove le idee scarseggiano e le poltrone si moltiplicano. Un luogo dove la cultura è lo sfondo, non il centro.

E allora sì, ha ragione chi dice che siamo allo sbando. Ma non per caso. Per scelta. 

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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