Allegoria della libertà in Place de la République, Parigi (Wikipedia)
Io che scrivo sono un uomo che osserva, e vengo dal ’68, un’epoca in cui la parola “libertà” aveva un peso, un’urgenza e una promessa diverse. Allora la battaglia era per una rivoluzione vera, una rottura con il passato, per un’autentica liberazione dei corpi, delle menti, delle coscienze. Oggi, invece, mi trovo a guardare quei short inguinali, quelle minigonne estremamente corte, i tanga, i costumi brasiliani con scollature vertiginose e schiene scoperte e mi chiedo: è questa la nuova emancipazione? Oppure siamo finiti in un circo di corpi esposti, che rischiano di essere solo oggetti da fruire, vetrine di un mercato che tutto compra e tutto vende?
Nel ’68, la libertà passava attraverso la contestazione, la denuncia del conformismo, il desiderio di essere finalmente padroni del proprio corpo e della propria sessualità. Era un’idea che voleva sovvertire i codici imposti, abbattere tabù e costruire un linguaggio nuovo, capace di rappresentare la complessità dell’essere umano senza ridurlo a semplice carne da vedere o da consumare.
Oggi, invece, il corpo sembra più spesso un prodotto di marketing, una merce su cui si costruisce la “libertà”. Ma chi detta le regole di questo gioco? Non sono forse gli stessi meccanismi di potere che un tempo volevamo distruggere? La moda, i media, i social, che trasformano l’immagine femminile in uno spettacolo incessante, in un invito a mostrarsi secondo standard che cambiano ma che restano sempre orientati al desiderio altrui.
Questa “libertà” si traduce troppo spesso in una costrizione mascherata: la pressione a esibire il corpo in modi sempre più estremi, per essere accettate, desiderate, “liberate” secondo canoni che forse non abbiamo scelto veramente. La vera emancipazione sarebbe invece la capacità di decidere liberamente se e come mostrarsi, senza che questa decisione sia influenzata da dinamiche esterne che riducono il corpo a un prodotto da vendere.
Non voglio qui fare la morale o rinnegare i desideri e le scelte personali di nessuno, ma invitare a una riflessione più profonda. La domanda è: indossare short inguinali, tanga o costumi brasiliani è davvero un gesto di potere personale o una risposta a un modello culturale che sfrutta e commercializza il corpo femminile? Perché se è vero che la liberazione passa anche attraverso il piacere e la sessualità, è altrettanto vero che non possiamo confondere il piacere con l’esposizione forzata o la mercificazione.
Ricordo la forza di quel ’68, quando la lotta per la libertà era accompagnata da un senso di comunità, di ideali condivisi, di voglia di cambiare davvero il mondo. Oggi, mi pare che molto di quel fuoco si sia trasformato in una fiamma artificiale, accesa dai riflettori dei social e dai like, spesso incapace di illuminare qualcosa di più profondo.
E c’è un’altra verità che non possiamo ignorare: essere donna oggi è spesso un peso enorme. Il carico di dover piacere, mostrarsi, conformarsi a modelli che cambiano ma restano esigenti, grava pesantemente sulle spalle di molte. Questa pressione non è solo estetica: è culturale, emotiva, sociale. Essere “libere” in un mondo che ci osserva e giudica senza tregua può essere una fatica enorme. Un fardello che non si vede ma si sente, che consuma e che a volte divide il desiderio di autenticità dall’obbligo di apparire.
Da uomo che ha vissuto il ’68, vi invito a non accontentarvi di un’illusione di emancipazione che rischia di essere solo un nuovo tipo di prigionia. Tornate a riprendervi la vostra autonomia, non lasciate che il vostro corpo sia il palcoscenico di uno spettacolo che non avete scritto voi.
La libertà non è mai uno spettacolo. Non è un vestito da indossare per piacere agli altri, né una mossa in un gioco di sguardi che ci riduce a oggetti da consumare. La libertà è la forza di scegliere davvero, senza condizionamenti, senza paura di non essere “abbastanza” o di non piacere.
Siate libere di essere, non soltanto di apparire. E ricordate: la vera rivoluzione parte dalla consapevolezza del peso che portate e dalla forza con cui decidete di alleggerirlo, scegliendo voi stesse.
La domanda rimane aperta e provocatoria: siete davvero libere, o siete soltanto protagoniste di uno spettacolo che non avete scelto di mettere in scena?
Carlo Di Stanislao