Il silenzio dei giusti: l’umanità selettiva davanti ai missili iraniani

 


"L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale che paralizza le coscienze e uccide due volte."  Elie Wiesel

Si parla di pace. Ovunque. Sempre. Ma non per tutti.

Nel lessico della diplomazia, la parola "pace" ricorre come un'eco vuota, un riflesso condizionato, un paravento dietro cui si nascondono omissioni, ambiguità, ipocrisie. È diventata un termine universale e al tempo stesso esclusivo, concesso solo ad alcune vittime, negato ad altre. Una parola spesa con generosità quando fa comodo, taciuta quando la verità rischia di disturbare la narrazione dominante.

E intanto, nel silenzio che accompagna ogni nuovo missile lanciato da Teheran, il numero delle vittime cresce. Uomini, donne, bambini. Palestinesi, israeliani, arabi, ucraini. Nessuno risparmiato, nessuno protetto. Ma non tutte le morti hanno lo stesso peso mediatico. Alcune mobilitano le piazze, scuotono i parlamenti, incendiano i social. Altre, invece, affondano in un mare di silenzio. Quasi non esistessero.

All’alba di una domenica come tante, è accaduto l’impensabile. O forse, il troppo prevedibile.

Un missile iraniano ha colpito una casa nella cittadina araba di Tamra, a est di Haifa. All'interno, una famiglia. Manar Khatib e le sue figlie, Shada (20 anni) e Hala (13), insieme a un’altra parente. Quattro donne arabe, uccise nel loro sonno. Vittime civili, innocenti. Il loro nome non è stato gridato nelle piazze, non è diventato hashtag, non ha scosso i vertici diplomatici europei. La loro morte è rimasta un dato, non una tragedia.

E poi, poche ore dopo, un altro missile ha colpito Bat Yam, città sulla costa israeliana. Un’altra casa, un’altra famiglia distrutta. Questa volta si trattava di rifugiati ucraini. Non ebrei, non israeliani. Una famiglia venuta da Odessa per salvare una bambina malata di leucemia. Nastia Borik, sette anni. Il suo destino si sarebbe potuto riscrivere con le cure giuste. E invece è stato sigillato da un’esplosione. Insieme a lei sono morti la madre Maria, la nonna Lena, e due cugini: Konstantin (9 anni) e Ilya (13). Cercavano speranza. Hanno trovato la guerra.

Erano civili. Non “coloni”, non soldati, non parte di uno scontro ideologico. Solo esseri umani.

Eppure, la loro tragedia non ha fatto rumore. Non ha acceso dibattiti, non ha ispirato editoriali indignati nei salotti progressisti d’Europa. Nessun corteo ha portato i loro volti stampati su cartelli. Nessun appello di artisti, nessun comunicato ONU. Perché? Perché chi li ha uccisi non rientra nel canone del “male riconoscibile”. Perché quando a colpire è l’Iran, o una delle sue milizie per procura, il giudizio si fa sfocato, prudente, pieno di giustificazioni culturali, storiche, geopolitiche.

È la coscienza umanitaria selettiva. La stessa che sa piangere Gaza, ma non Tamra.

Questa selettività non è solo una debolezza morale: è una colpa. Perché legittima l’idea che esistano morti più giusti di altri, vittime che meritano lutto e altre che devono essere archiviate come effetti collaterali. È la stessa logica perversa che trasforma gli ospedali colpiti in “obiettivi strategici” se si trovano in Israele, ma in “crimini di guerra” se a essere bombardati sono a Gaza o in Cisgiordania. Due pesi, due misure, una sola ipocrisia.

Nel frattempo, l’ayatollah Khamenei (foto da wikipedia) lancia proclami e promesse di vendetta che non sono più soltanto retorica. I missili lo dimostrano. La mappa politica del Medio Oriente si è riplasmata in meno di una settimana: nuove alleanze, vecchi nemici, fronti multipli. Israele, Hezbollah, Hamas, Iran, Siria, Yemen: un groviglio di attori che rende impossibile distinguere il fronte militare da quello civile. In mezzo, come sempre, i più vulnerabili.

La domanda allora è questa: di che pace parliamo?

Perché la pace non può essere la bandiera sventolata da chi tace di fronte a certi crimini. Non può essere il premio di consolazione offerto alle vittime “giuste”, mentre si lascia morire in silenzio chi non appartiene al giusto schieramento. La pace non è un concetto astratto. È un impegno concreto, quotidiano, universale. E comincia proprio da qui: dal rifiuto di voltare lo sguardo quando a morire sono i civili sbagliati per la nostra narrativa.

Non ci sarà mai vera pace se ogni nuova vittima deve prima superare il filtro dell’identità per ottenere una lacrima. Se una bambina come Nastia non merita nemmeno un titolo d’apertura perché la sua morte è geopoliticamente scomoda. Se quattro donne arabe diventano statistiche perché uccise da chi non vogliamo condannare.

Pace è giustizia, oppure è propaganda.

E giustizia vuol dire anche riconoscere che chi lancia missili sui civili è un criminale, chiunque sia il bersaglio e qualunque sia la causa. Vuol dire che non si può parlare di diritti umani a intermittenza. E che ogni volta che scegliamo il silenzio, scegliamo di essere complici.

La pace che serve oggi non è quella delle risoluzioni ONU o dei tavoli diplomatici a porte chiuse. È una pace che parte dal basso. Dalla verità. Dalla coerenza. Dal coraggio di dire che ogni vita conta. E che ogni morte civile è una sconfitta per tutti, non solo per qualcuno.

Finché non saremo capaci di questo, continueremo a usare la parola “pace” come un mantra, mentre il mondo brucia. E le coscienze, come i missili, continueranno a cadere.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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