Il governo della forza: il potere come sostituto della responsabilità



"Il potere non corrompe. È la paura che corrompe... la paura di perdere il potere."  John Steinbeck

Dopo mille giorni di governo, l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni mostra chiaramente il proprio volto: un potere forte nella forma, debole nella sostanza. Un potere che ha saputo costruire una narrazione efficace, un’immagine di stabilità e decisionismo, ma che – se osservato da vicino – si regge su fondamenta fragili, fatte di propaganda, verticalismo e una preoccupante assenza di visione strategica.

Il governo si è imposto sulla scena politica con un’efficienza comunicativa invidiabile e una promessa chiara: ridare forza, dignità e orgoglio all’Italia. Ma quella forza rivendicata è diventata, giorno dopo giorno, forza di controllo, non di costruzione. È la forza del comando, non quella della responsabilità. È una forza che si esercita più nei palazzi e nei talk show che nei cantieri, nei corridoi dei ministeri, nelle scuole, negli ospedali, nelle periferie.

Certo, il governo Meloni ha saputo muoversi bene sul piano internazionale. Ha rassicurato Bruxelles, ha mantenuto la linea euro-atlantica, ha mostrato una certa disciplina fiscale. Il rapporto debito/PIL è calato lievemente, è stato raggiunto un avanzo primario, e i mercati hanno apprezzato la prudenza nei conti. Ma questa stabilità viene pagata con l’immobilismo sociale. È una politica che rinuncia a investire, che promette riforme ma si affida a bonus temporanei e tagli lineari. Si risparmia oggi, a scapito di domani.

E mentre si stringono le maglie della spesa, i problemi strutturali si aggravano. La sanità pubblica è allo stremo, con assunzioni promesse e poi cancellate. La scuola rimane sottofinanziata, le università sono sempre più disconnesse dal sistema produttivo, e i giovani – di nuovo – cercano futuro all’estero. L’occupazione cresce solo grazie a incentivi a tempo, ma i salari restano fermi. E intanto, il costo della vita aumenta. Nessuna “narrazione del riscatto” può coprire questa realtà.

Nel campo dell’innovazione e della transizione digitale, il vuoto è quasi imbarazzante. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è stato rinegoziato senza una vera visione. Non esiste un disegno strategico per l’intelligenza artificiale, per la robotica, per la sostenibilità. Si naviga a vista. Si spostano fondi, si appaltano opere, ma manca un’idea di Paese moderno. Non basta rifare i marciapiedi o asfaltare le strade per dire di avere una politica industriale.

Nel frattempo, il governo moltiplica gli atti simbolici. Invece di riformare, si riscrive la storia. Si alimentano conflitti culturali, si rilanciano crociate identitarie, si spostano le priorità sulle “battaglie di bandiera”: il premierato, la natalità intesa come ideologia, il controllo dell’informazione pubblica, la crociata contro l’immigrazione, l’ossessione per l’ordine. Ma queste non sono risposte ai bisogni reali. Sono cortine fumogene. Sono una strategia di distrazione.

A ciò si aggiunge un metodo di governo inquietante: si legifera per decreto, si accentrano poteri, si umilia il Parlamento. Il pluralismo è percepito come un fastidio, il dissenso come un attacco personale. Chi critica viene delegittimato, ridicolizzato, marchiato come élite. È una politica dell’“o con me o contro di me” che spacca il Paese, lo polarizza, lo indebolisce.

E tuttavia, Giorgia Meloni continua a vincere. Il suo potere resiste, e in alcuni casi si consolida. Perché? Perché non è soltanto la sua forza a reggere il sistema, ma anche – e forse soprattutto – la debolezza drammatica dell’opposizione. La sinistra italiana, in particolare, continua a girare a vuoto. Incapace di parlare a chi ha perso tutto. Incapace di ricostruire un racconto di speranza e giustizia. Incapace, soprattutto, di costruire una squadra dirigente capace di unire, guidare, ispirare.

La sinistra si accontenta di essere “contro”, ma raramente è “per” qualcosa. Si rifugia nel linguaggio dell’indignazione, delle minoranze, delle battaglie simboliche, dimenticando le piazze vere, quelle del lavoro, delle imprese, delle famiglie in difficoltà. I suoi riflessi sono vecchi, automatici, prevedibili. E in questo schema, diventa – suo malgrado – una spalla perfetta per il governo. Ogni reazione pavloviana dell’opposizione rafforza l’identità “contro i poteri forti” che la destra si è cucita addosso.

Ma tutto questo, quanto potrà durare? La tenuta del governo Meloni non dipende solo da lei. Dipende da chi, finalmente, saprà rimettere al centro della politica il merito, la visione, la responsabilità vera. Dipende da chi avrà il coraggio di riaprire i cantieri veri: quello del lavoro dignitoso, dell’istruzione pubblica, della sanità accessibile, della transizione ecologica. Dipende da chi saprà dire cose nuove e costruire fiducia, non solo consenso.

Perché il rischio che corriamo oggi è profondo: non è soltanto quello di avere un governo conservatore. È quello di normalizzare un’idea povera di politica, dove la forza vale più della ragione, dove il potere è fine a sé stesso, dove l’Italia si accontenta di sopravvivere invece di crescere.

Finché nessuno saprà proporre un’alternativa vera, il potere continuerà a tenere in piedi sé stesso. Ma il Paese, lentamente, rischia di sprofondare in un eterno presente. Un presente senza ambizione, senza visione, senza futuro.

Carlo Di Stanislao

Foto da Wikimedia

Fattitaliani

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