Il 23 luglio 2025, il confine tra Thailandia e Cambogia è tornato a essere un teatro di sangue. Un violento scontro armato ha lasciato sul terreno 9 morti – tra cui 4 soldati thailandesi, 3 cambogiani e 2 civili, oltre a decine di feriti. La tensione che da mesi serpeggiava in quell'area si è tramutata in un confronto diretto, segnando un grave peggioramento della crisi tra i due paesi. Non è un semplice incidente militare, ma il sintomo acuto di una ferita storica mai rimarginata.
Un conflitto sospeso nel tempo
La frizione tra Thailandia e Cambogia non nasce oggi. È un conflitto radicato nel tempo, nutrito da cicatrici coloniali, ambizioni nazionaliste e memorie dolorose. Ogni governo che arriva al potere, ogni momento di instabilità interna, sembra risvegliare questa disputa sopita.
La zona più simbolica – e più contesa – resta quella intorno al tempio khmer di Preah Vihear, monumento che è insieme reliquia religiosa, simbolo identitario e baluardo strategico. Da quando, nel 2008, l’UNESCO ha inserito il sito tra i patrimoni dell’umanità, la contesa si è inasprita. Per la Cambogia è un riconoscimento della propria sovranità storica. Per la Thailandia è una provocazione. Ma ciò che rende tutto più teso è il terreno attorno al tempio: terre aride, montagne rocciose e foreste impervie che, a prima vista, sembrerebbero prive di valore. In realtà, queste zone nascondono ricchezze minerarie, rotte commerciali e punti di controllo strategico, il vero oggetto del contendere.
L’ombra lunga della Cina
A rendere il quadro ancora più delicato è la geopolitica del Sud-Est asiatico, oggi dominata dalla crescente influenza della Cina. Pechino ha fatto della Cambogia un partner strategico, investendo miliardi in porti, strade, ferrovie e – cosa più delicata – infrastrutture militari mascherate da civili.
Le immagini satellitari parlano chiaro: nei pressi della base navale di Ream, sul Golfo della Thailandia, si costruiscono piste d’atterraggio e moli in grado di ospitare navi da guerra. Non si tratta solo di speculazioni: la Cina ha firmato accordi segreti con Phnom Penh, suscitando la preoccupazione sia di Bangkok che di Washington.
Così, quando esplode un conflitto come quello del 23 luglio, non si può più leggerlo solo come una disputa tra due vicini. Si tratta piuttosto di una crisi incastonata dentro equilibri globali fragili, dove ogni movimento locale può innescare reazioni a catena.
La Thailandia, più vicina storicamente agli Stati Uniti e a una postura non allineata, vede la presenza cinese in Cambogia come una minaccia diretta. Ecco perché, nel linguaggio non detto dei comunicati ufficiali, si leggono avvertimenti reciproci, accuse velate, e un pericoloso gioco di nervi.
Un equilibrio instabile su una frontiera armata
Lungo quel confine, tra villaggi isolati e trincee scavate nel fango, la guerra è un’eventualità sempre pronta a manifestarsi. I contadini coltivano riso sotto la minaccia delle mine, le scuole chiudono non per le vacanze, ma per evacuazione, e i bambini imparano a riconoscere il suono dei colpi di mortaio.
Mentre i governi cercano di guadagnare posizioni nei media e nei consessi internazionali, chi paga il prezzo più alto sono le comunità locali, stremate da anni di insicurezza. Il nazionalismo è un carburante facile da accendere, e molti leader lo usano per distogliere l’attenzione da problemi interni: corruzione, disoccupazione, repressione politica.
Ma un conflitto del genere non si controlla facilmente. Una scintilla – come quella del 23 luglio – può degenerare in una fiammata regionale.
La diplomazia tra impotenza e ambiguità
L'ASEAN, teoricamente garante della stabilità regionale, si trova ancora una volta a dimostrare la propria impotenza. Legata da regole che richiedono l’unanimità, e indebolita da interessi divergenti al suo interno, non riesce ad agire come mediatore credibile. La Cambogia, forte dell’appoggio cinese, blocca ogni risoluzione che possa sembrare critica verso di lei.
Gli Stati Uniti si sono detti "profondamente preoccupati", ma la loro influenza è oggi molto più debole che nel passato. La Cina, dal canto suo, invita alla calma, ma senza mai condannare la Cambogia, segno evidente che considera l’attuale situazione favorevole ai propri interessi strategici.
Riflessioni finali: la pace fragile e il futuro incerto
In un mondo dove le guerre spesso iniziano in modo ambiguo e si trascinano per anni senza vincitori né soluzioni, la crisi tra Thailandia e Cambogia rappresenta uno dei tanti focolai dimenticati, dove la diplomazia vacilla, e la storia si ripete.
Ciò che colpisce è l’incapacità collettiva di superare le logiche del passato. La mappa mentale dei leader resta ancorata a linee di confine tracciate con righello da potenze coloniali, anziché fondata sulla cooperazione e lo sviluppo condiviso.
In tempi in cui il mondo è sempre più interconnesso, è paradossale vedere come alcuni territori restino prigionieri del secolo scorso, mentre i cittadini chiedono solo stabilità, diritti e futuro.
Se non si affrontano le vere radici del conflitto – storiche, politiche, economiche – la pace sarà solo una tregua tra due raffiche di mitra.
E in fondo, come scriveva Italo Nostromo, non è nei trattati che la guerra finisce, ma negli occhi degli uomini. E oggi, in troppi occhi, si legge ancora la paura.
Carlo Di Stanislao