di Krishan Chand Sethi K.C.
Inizia come un pensiero lieve, quasi seducente. «E se potessimo
cancellare il male?» Non domarlo, non reprimerlo o contenerlo, ma annientarlo
del tutto. Niente più genocidi, nessuna violenza, nessun tradimento, nessun
dolore, nessuna crudeltà. Una pagina pura, immacolata. Un mondo rinato senza
cicatrici. Immagina la libertà che ne deriverebbe, il sollievo dopo secoli di
sofferenza. Per un istante fugace, quella visione sembra salvezza. Sembra che
qualcuno mi abbia messo in mano una gomma divina e sussurrato: “Vai. cancella
l’oscurità. Rendi tutto giusto.”
Ma nel momento in cui comincio a fermarmi davvero su quest’idea –
non con la logica soltanto, ma con la memoria, con l’empatia, con il cuore
umano – essa cambia. Diventa più pesante. Più complessa. Più scomoda. Perché il
male, nonostante il suo orrore, non è solo una macchia isolata nella nostra
storia. È un filo oscuro che attraversa l’intreccio dell'esperienza umana. Non
è separato da noi, per quanto lo desidereremmo. In modo devastante e
paradossale, il male ha plasmato non solo ciò che abbiamo subito, ma anche ciò
che siamo diventati.
Ho incontrato persone – persone reali che hanno sofferto
profondamente - persone che hanno perso la casa a causa della guerra, i propri
cari per mano della violenza, l’infanzia per la paura. Eppure,
sorprendentemente, non sono diventate crudeli. Non sono nemmeno diventate
amare. Alcuni di loro, contro ogni previsione, sono diventati le anime più
tenere che abbia conosciuto. Sembrava che il dolore non li avesse induriti, ma resi
umili, profondi, resi dolci nel senso migliore. Ho visto persone infrante dalla
tragedia, diventare poi capaci di accogliere il dolore altrui con grazia.
Non è forse questo il crudele
paradosso del male? Che da quelle ceneri talvolta nasca il meglio di noi?
Penso a un ragazzo al quale ho insegnato anni fa. Piccolo, fragile,
spesso solo. Era stato brutalmente bullizzato, deriso per cose che non poteva
cambiare, umiliato per il semplice fatto di essere chi era. Eppure, invece di
chiudersi, divenne un insegnante. Uno di quei rari e luminosi insegnanti,
capace di cogliere il dolore silenzioso negli occhi dei bambini. Li raggiungeva
prima che il silenzio diventasse disperazione. Avrebbe avuto quella profondità,
quella comprensione, quella tenerezza se non avesse sofferto?
Parliamo spesso di forza, resilienza, empatia; magnifiche parole che
appuntiamo come medaglie allo spirito umano. Ma da dove vengono? Fioriscono
nella luce della facilità? Oppure nascono nella tempesta? Lo spirito, suppongo,
è simile. Ho visto più coraggio negli occhi di persone che hanno perso tutto,
rispetto a quelli in stanze piene di comfort.
Così la domanda cambia: se cancellassimo il male, cancelleremmo
anche le persone che siamo diventati in risposta? Perderemmo il ragazzo che
divenne attivista per la pace quando la guerra gli portò via la famiglia?
Perderemmo la donna che fondò un rifugio dopo aver vissuto abusi? Perderemmo le
leggi forgiate dall’ingiustizia, la musica nata nel lutto, le rivoluzioni nate
dalle rovine?
La storia, come credo sempre più, non è pulita. Non deve esserlo. È
cruda e intricata, come un fiume straripato dopo la tempesta. Non possiamo
scavare le parti fangose senza sconvolgere tutto il corso. Alcune delle nostre
idee più sacre – libertà, dignità, uguaglianza – sono emerse non dal quieto
fluire, ma dalla resistenza.
E la saggezza guadagnata attraverso la sofferenza? Una volta mi
sedetti con un uomo in un villaggio raso al suolo da un’alluvione. Aveva perso
tutto: casa, ricordi, parti della famiglia. Eppure, quando arrivai, mi offrì
una tazza di tè. Mani ferme. Un sorriso silenzioso. Gli chiesi come potesse
ancora avere grazia da offrire. Lui disse: «Quando l’acqua ha portato via
tutto, ho scoperto ciò che non poteva essere portato via». Quella frase, così
semplice, non mi ha mai abbandonato.
Non si può insegnare questo. Non si legge in un manuale né si
eredita da un mondo pacifico. Lo si guadagna attraversando il fuoco e
scegliendo, comunque, di restare umani. Se cancellassi il male, cancellerei
anche quell’uomo? Annullerei la grazia che ha conquistato sopravvivendo alla
tempesta? La sua dignità? La sua incrollabile gentilezza?
E la nostra arte? Le poesie scritte nel dolore, i dipinti nati dalla
solitudine, le canzoni nate da un cuore spezzato? Se scomparisse il male, che
ne sarebbe della bellezza nata in sfida ad esso? Dell’arte che ha aiutato altri
a sopravvivere? Delle parole che hanno dato voce a un dolore muto?
Alcune delle più grandi opere letterarie del mondo sono nate
dall’ingiustizia. Alcune delle verità spirituali più profonde sono emerse
durante l’oppressione. Se non ci fosse mai stato l’esilio, sarebbe nata la
poesia del desiderio? Se non ci fossero mai state le prigioni, avremmo mai
conosciuto la letteratura della libertà?
Perfino la moralità, il senso stesso del giusto e dello sbagliato,
si forma nel contrasto. Comprenderemmo la gentilezza se non avessimo mai visto
la crudeltà? Riconosceremmo la pace se non avessimo mai conosciuto la guerra? I
bambini apprendono le storie del bene e del male non solo per intrattenerli, ma
per aiutarli a scegliere. Se il male non esistesse, se il mondo fosse
igienizzato da ogni sofferenza, la bontà avrebbe ancora un senso? O sarebbe un
ideale non testato? Un’abitudine vuota invece che una scelta sacra? Un mondo
senza male può sembrare perfetto in superficie. Ma sarebbe profondo? Sarebbe
reale? Potrebbe portare il peso del trionfo, il fuoco della resistenza, la
nobile quiete del perdono?
Noi
non siamo porcellana intonsa. Siamo argilla ammorbidita, modellata, spaccata e
ricomposta. Ogni cicatrice racconta una storia. Ogni frattura mostra il fuoco
attraversato. Ed è in quelle imperfezioni che risiede la nostra forza. Un mondo
perfetto potrebbe essere sereno, ma anche superficiale. Potrebbe brillare, sì,
ma potrebbe arrivare a splendere?
Lotto profondamente con questo pensiero. C’è una parte di me che
vorrebbe dire sì, cancellarlo tutto. Nessun bambino dovrebbe soffrire. Nessuna
madre dovrebbe seppellire il proprio figlio. Nessuno dovrebbe essere messo a
tacere, oppresso, ferito, perseguitato. Ma poi, la mia anima risponde
diversamente. Perché ho visto cosa le persone sono diventate nonostante
il male. Ho visto la compassione che ha forgiato, i legami che ha rafforzato, i
fuochi che ha acceso. Ho visto l’umanità elevarsi in qualcosa di luminoso non
perché la vita era facile, ma proprio perché non lo era.
E temo: se cancellassimo ogni male, potremmo cancellare anche quelle
qualità conquistate a fatica. Potremmo perdere la resilienza scoperta. Il
coraggio coltivato. L’empatia costruita dal dolore, momento dopo momento. Perfino
nella religione e nella filosofia la presenza del male non è solo tollerata, ma
affrontata. Nel Cristianesimo, la crocifissione è una storia di dolore e di
redenzione. Nell’Induismo, la danza tra dharma e adharma è continua. Nel Buddismo,
la sofferenza è la prima verità nobile, non per esaltarla, ma per comprenderla
e trasformarla. In tutte le tradizioni sembra emergere un insegnamento: la
nostra risposta al male è ciò che ci rende divini.
Guardiamo la storia. Mahatma Gandhi non sarebbe diventato il Mahatma
senza le ingiustizie dell’impero. Martin Luther King Jr. non è emerso in
un’utopia, ma in un’epoca di crudeltà razziale. La voce di Malala si è levata
dalla violenza pensata per sopprimerla. Se quei mali non fossero mai esistiti,
quelle luci avrebbero ancora brillato?
Non pongo queste domande facilmente. Fanno male. Contraddicono il
nostro desiderio di un mondo più dolce. Ma dobbiamo porle. Perché cancellare il
male non significa solo guarire, significa riscrivere. Annullare non solo la
sofferenza, ma anche i trionfi nati da essa. Nei miei momenti più silenziosi,
penso alle migliaia di eroi anonimi, quelli che si sono rialzati,
silenziosamente, dopo che tutto è crollato. Le persone che hanno seppellito i
propri cari e hanno continuato ad amare. I bambini che hanno affrontato il
terrore e hanno scelto la gioia. I sopravvissuti che hanno trasformato le
proprie ferite in saggezza. Loro sono l’anima della nostra specie. Se
cancellassimo completamente il male, rischieremmo di cancellare anche loro.
Quindi, quando mi si chiede “Cancelleresti il male?”, trovo
me stesso a rispondere con esitazione, forse con le lacrime, ma anche con
convinzione:
No. Non perché io accolga il male. Ma perché ho visto ciò che siamo
diventati in risposta ad esso. Perché credo che le nostre cicatrici non siano
vergogne: sono sacre. Perché non siamo soltanto la somma delle nostre gioie.
Siamo il totale di ciò che abbiamo sopportato e, comunque, scelto di restare
buoni.
Conclusioni
Nessuna domanda mi ha mai reso più introspettivo di questa. L’idea
di eliminare tutto il male sembra pura, nobile, persino necessaria. Ma sotto
quel desiderio si cela qualcosa di fragile: la nostra stessa umanità. Siamo ciò
che siamo non solo perché abbiamo conosciuto l’amore, ma anche perché abbiamo
conosciuto la perdita. Non solo perché abbiamo visto la pace, ma anche perché
abbiamo conosciuto il dolore. Se la nostra compassione, il nostro coraggio, la
nostra giustizia, la nostra unità, la nostra luce sono nati in risposta al
buio, allora quella luce è guadagnata. È reale. È sacra.
E non la cancellerei, per nulla al mondo.
Dr. Sethi K.C. - Autore
Daman (India) – Auckland (Nuova Zelanda)