La Galleria Umberto Di Marino è lieta di annunciare Loophole, prima mostra personale in Italia di Massinissa Selmani. Per l’occasione, l’artista algerino presenterà una nuova serie di disegni, strumento primario della sua pratica, e installazioni rimodulate appositamente per gli spazi di Casa Di Marino. Narrando e costruendo liberamente un suo mondo, sempre in equilibrio tra la gravità delle tematiche e personaggi grotteschi, attraversato da una tensione costante tra situazioni surreali o improbabili e architetture solenni, Selmani rappresenta il momento in cui, dentro quell’assurdità, emerge la possibilità di un ordine reale, ed è lì che il riso svanisce. Loophole è una scappatoia, ma è anche una feritoia; può intendersi come un deragliamento della storia ufficiale, una via d’uscita dal sistema, un pertugio da cui si può guardare o fuggire. Proprio la sua ambiguità può spiegare per assurdo i diversi livelli di lettura nei paesaggi costruiti da Selmani con i disegni e le installazioni in mostra. Forzare i limiti della realtà, fare breccia in un muro e crearsi una via d’uscita è un concetto caro a Napoli, città disseminata di loopholes architettonici e sociali, dove il confine tra ufficiale e non ufficiale è poroso e continuamente in ridefinizione. Qui, la protesta non è opposizione frontale, ma un modo di assorbire e riscrivere con una propria grammatica il potere, trasformando la regola in eccezione e viceversa. Ma anche l’utilizzo stesso del disegno, soprattutto in questa forma essenziale, fatta di figure isolate, spazi surreali e sfondi interamente bianchi, è un loophole. Non punta alla costruzione di narrazioni monumentali e totali, che universalizzino la condizione umana, ma a diventare una possibilità interstiziale, in cui non c’è contrapposizione dialettica. I personaggi sospesi, comici e spaesati non obbediscono del tutto né si ribellano; invece sembrano scorgere strade alternative, perdendosi in buchi narrativi e continui ribaltamenti di una logica comune. Ogni disegno è una fessura, una breccia che evidenzia gli assurdi inciampi di una realtà unica che non riesce più a chiudere il cerchio su se stessa, aprendo infinite soglie da cui filtrare il possibile. Un “sabotaggio gentile”, tecnico, sociale, storico e narrativo. Ispirandosi alla fotografia di stampa dei quotidiani cartacei, le immagini costruite da Selmani lasciano affiorare i segni di una tragedia latente o le premesse di una violenza sfuggente e imminente. Il potenziale finzionale che ne deriva, fatto di posture o frammenti architettonici volutamente familiari, resiste a ogni tentativo di collocazione temporale o spaziale. Si potrebbe parlare di una “letteratura minore”: non nel senso di una forma ridotta o marginale per mancanza di mezzi, ma una pratica che, partendo da una posizione periferica, riesce a scardinare i codici della lingua dominante dall’interno, forzandoli o piegandoli. Selmani, infatti, restituisce un mondo dove l’architettura non delimita, il gesto è fuori tempo, e le figure si muovono con una logica né aderente né deviante, ma collocata di traverso. La narrazione è scandita da una macchina che si autodisfa, che mina il confine tra evento e finzione, lasciando aperto il campo al possibile e all’imprevisto. E così, anche il narratore, cioè l’artista, dissemina la storia di equivoci e incertezze. Ma come in Borges, dove un racconto inizia con uno scrittore che sta ancora pensando di scrivere un racconto, anche qui la struttura resta instabile, eppure sorprendentemente nitida: nonostante gli slittamenti, i buchi, le finzioni e i loopholes, l’azione, disegnata, resta sempre perfettamente descritta. |