Il problema è che, al Taormina Film Festival 2025, di futuro non si è vista nemmeno l’ombra. Solo una patina di presente ultra-truccato, photoshoppato, sgomitante e disinvolto. Per un evento che dovrebbe raccontare l’anima del Mediterraneo, la forza delle storie, la magia collettiva della sala buia, ciò che si è visto dal 10 al 14 giugno ha invece confermato il tracollo di un’idea di cinema ridotta ormai a gadget, a posa da tappeto rosso, a contenuto Instagrammabile.
Sì, certo, la location è quella da cartolina: il Teatro Antico, l’Etna sullo sfondo, la luce struggente della sera che si posa sulle gradinate come una benedizione pagana. Ma la luce serve anche a svelare l’imbarazzo: quello di un festival in cui la sostanza è evaporata, lasciando solo una nebbia di vanità.
Red carpet o carnevale d’Europa?
Tra abiti trasparenti che sfidano la logica, spacchi che urlano più forte della musica, e scollature progettate più per le gallery online che per l'eleganza, la donna è tornata ad essere un manichino parlante, spesso con battute scritte da altri. Non un soggetto del racconto, ma un accessorio del marketing.
E si badi bene: il problema non è l'erotismo, che è arte, ma la sua caricatura: quella che svuota il corpo della sua forza, del suo mistero, della sua potenza evocativa. Questa non è bellezza, è post-produzione. Non è seduzione, è mercificazione di massa.
La tanto sbandierata parità si riduce a un invito a svestirsi meglio. Le registe presenti non hanno avuto lo stesso spazio mediatico delle "celebrità" seminude. Il messaggio è chiaro: la tua voce è irrilevante, la tua pelle vende di più.
Film in gara: i veri vincitori, tra ambizione e vuoto narrativo
A sorpresa (ma non troppo), il Cariddi d’Oro è andato a For Your Sake di Axel Monsú: un'opera cupa, dalla fotografia plumbea e densa di simbolismi a cui nessuno, alla fine, è riuscito a dare un significato condiviso. Una vittoria più legata al tono grave che al valore reale dell'opera.
La miglior regia è stata attribuita a Warfare – Tempo di guerra di Alex Garland e Ray Mendoza, film muscolare e formalmente compatto, che però affronta tematiche belliche con il consueto estetismo travestito da realismo: un videogame travestito da cinema impegnato.
La migliore attrice, Ebada Hassan in Brides – Giovani spose, ha convinto la giuria con un ruolo drammatico ma scolpito nei cliché delle storie di matrimoni forzati e patriarcato, dove l'angoscia è inevitabilmente telegrafata. Una performance intensa, ma a tratti teatrale.
Geoffrey Rush è stato premiato come miglior attore per The Rule of Jenny Pen di James Ashcroft. Qui il talento dell'attore giganteggia in un film che sembra cucito su misura per garantirgli la statuetta. Grande interpretazione, certo, ma dentro un film che non osa mai disturbare.
Premi onorari e scenografie da museo delle cere
Tra le statuette commemorative, il festival ha assegnato il Lifetime Achievement Award a Martin Scorsese, giunto con la figlia Francesca. Il maestro è stato celebrato come icona più che come autore: un busto bronzeo, commosso e forse anche un po’ frastornato, mentre intorno si aggiravano flash e influencer. La figlia, fresca di cortometraggio, è sembrata più un investimento promozionale che una presenza davvero autoriale.
Tra gli altri celebrati: Michael Douglas, Catherine Deneuve, Dennis Quaid, Helen Hunt, Monica Bellucci e Luca Zingaretti. Tutto già visto, già omaggiato, già digerito.
Se Samperi avesse avuto una macchina da presa...
A rendere il tutto più amaro c'è un paradosso storico. Salvatore Samperi, regista acido, libertario e lucidamente controverso, era nato proprio a Taormina. E se fosse stato ancora vivo, questo festival gli avrebbe fornito materia per il suo film più feroce. Lui che con Malizia, Ernesto e Nenè ha saputo raccontare con sottile ironia e disincanto il confine tra desiderio e repressione, tra seduzione e consumo.
Samperi avrebbe raccontato con feroce leggerezza lo scollamento tra cultura e spettacolo, tra donne libere e donne vendute come gadget da lanciare su TikTok. Avrebbe mostrato l'oscena deriva del corpo femminile reso algoritmo visivo: perfetto, spersonalizzato, usa e getta. Avrebbe riso, amaramente, delle registe ignorate e delle "it-girls" celebrate. Perché lui il cinema lo usava come una lente, non come uno specchio deformante.
Il cinema globale: una crisi senza più alibi
La sensazione è che il cinema festivaliero non riesca più a parlare con nessuno che non sia già dentro al suo gioco. Gli Oscar premiano l’irrilevante. Cannes si perde in autocompiacimenti. Il pubblico vero si rifugia in altri media o nei classici. Locarno e Toronto resistono, ma rischiano la marginalità.
Tutte le speranze a Venezia
In questo panorama stanco e narcisista, solo Venezia può ancora provare a invertire la rotta. Perché è l'unico festival che, malgrado le tentazioni glamour, conserva ancora una coscienza critica. Là dove Cannes si guarda allo specchio, Venezia ha saputo negli ultimi anni premiare autori veri: dal coraggio disturbante di Lanthimos alla poesia scarnificata di Martone, dalla critica sociale di Larraín alla forza emotiva di Audrey Diwan.
A Venezia il rosso del tappeto ancora fa da sfondo, non da protagonista. Lì, almeno, ogni tanto il cinema viene prima dei vestiti. Speriamo che nel 2025 questo equilibrio sopravviva, che sappia rilanciare voci nuove e visioni profonde. Perché se anche Venezia dovesse cedere, resterebbero solo i musei, o peggio: i reel.
Il cinema che vorrei
Di Italo Nostromo