Pier Luigi Bersani, con il suo inconfondibile tono da oste che ha appena scoperto che gli hanno chiuso la bocciofila, ha lanciato l’ultimo disperato appello alla base: basta sconfittismo! Non si possono buttare 14 milioni di voti, dice. E ha pure ragione. Peccato che quei voti, più che buttati, si siano suicidati negli anni: uno alla volta, disperati, svaniti nel nulla come le promesse elettorali della sinistra dal 2006 in poi.
Il problema, Pierluigi, non sono i 14 milioni. Sono gli altri 30 che non vi votano più neanche se vi presentate vestiti da comici o da influencer. Il centrosinistra si ostina a pensarsi come una grande casa comune. Peccato che ormai sia rimasto solo il sottoscala, con le ragnatele, la moquette del '95 e D’Alema che traffica in armi in fondo al corridoio.
Eh sì, Massimo D’Alema: un tempo l'intellettuale più affilato del PDS, oggi appaltatore d’ombre in Albania. Mentre la sinistra discuteva di diritti e giustizia sociale, lui trattava forniture militari in giacca di lino, tra un Montepulciano d'annata e una telefonata criptata.
Piero Fassino, invece, ci ha regalato una perla degna di una sitcom di seconda serata: accusato di aver rubato dei profumi in un duty free a Tel Aviv. Forse non li ha rubati davvero, ma l’immagine è rimasta. L’uomo che sognava il Partito Democratico europeo beccato col Chanel n.5 in tasca. Più che un leader, un caso umano da Airport Security: scali internazionali.
Romano Prodi, avvistato di recente a Ventotene (forse in cerca di quel sogno europeo che ormai sta su Booking come esperienza storica), ha risposto con gelo e sufficienza a una giornalista che gli chiedeva conto del disastro attuale. Sembrava più offeso per essere stato disturbato che per lo stato comatoso della sinistra.
Walter Veltroni è del tutto sparito, diventato una forma di vapore culturale. Ogni tanto riemerge per ricordarci che ha visto un bel film africano o per dire che “bisogna ripartire dai valori”. I quali, purtroppo, sono come lui: introvabili.
Michele Emiliano, invece, è sempre lì. Immobile, granitico, indistruttibile. Non cede la poltrona nemmeno se lo legano a un razzo. Parla di territorio, ma sembra più un amministratore di condominio con la fissa per la perennità.
E Nicola Zingaretti? Sempre più simile a una citazione da Baci Perugina, con la zeppa che cresce mentre l’interesse crolla. I suoi appelli all’unità ormai rimbalzano nel vuoto come un volantino elettorale lanciato in una valle deserta.
Insomma, la vecchia guardia del centrosinistra sembra uscita da una cena di ex compagni finita male: tutti presenti, nessuno sobrio, nessuno d’accordo, tutti convinti che “una volta era meglio”. E mentre si rimpiange Enrico Berlinguer, loro fanno politica come se fossero nel remake di Febbre da cavallo.
Ma non temete: arriva il nuovo! Elly Schlein alla guida del PD prometteva rivoluzione. Giovane, progressista, fluente in inglese, tedesco e Instagram. Peccato che da quando ha vinto, sembri più impegnata a gestire faide interne che a spiegare cosa voglia fare. L’unico cambiamento visibile, per ora, è che ha fatto uscire Bonaccini e fatto rientrare Gori in modalità passivo-aggressiva.
E in questo quadro non poteva mancare Matteo Renzi, che ha trasformato Italia Viva nel suo TED Talk permanente. Parla in loop del Jobs Act come se fosse l’iPhone, vola a Riad con entusiasmo, e ogni tanto si ricorda che esiste ancora la Toscana.
Enrico Letta, tornato in Francia con la stessa espressione di chi ha sbagliato porta al ballo delle medie, lancia tweet criptici e osserva il crollo del centrosinistra da lontano, come un archeologo disilluso.
E poi c’è Carlo Calenda, il Bartezzaghi della politica: ti sembra di capirlo all’inizio, poi ti perdi dopo due righe. Divide, accusa, abbandona tavoli. La sua Azione è più che altro una reazione: isterica, solitaria e convinta di avere ragione anche quando è da solo in una stanza.
Il risultato? Il centrosinistra è diventato un gigantesco tavolo IKEA senza istruzioni. Tutti hanno un pezzo in mano, ma nessuno sa dove vada. Mentre il Paese affonda tra disuguaglianze e astensionismo, loro ancora litigano per il capogruppo alla Camera e l’orario delle direzioni.