L’Eternauta e l’impossibilità dell’immaginario domato

 


“La fantascienza non descrive il futuro, descrive il presente attraverso metafore esagerate.”
— Ursula K. Le Guin

Di recente su Netflix è approdata L’Eternauta, serie argentina diretta da Bruno Stagnaro. Avrebbe potuto essere un omaggio potente a una delle opere più significative della narrativa disegnata del Novecento. E invece è soltanto una confezione moderna, conforme, svuotata. Un prodotto che finge di rispettare, ma in realtà consuma. E lo fa nel modo più banale: trasformando la visione in intrattenimento, l’angoscia in azione, il pensiero in estetica da algoritmo.

L’opera originaria, El Eternauta di Héctor Germán Oesterheld, pubblicata nel 1957, è molto più che una storia di alieni. È una parabola sulla resistenza, sull’isolamento dell’individuo, sull’orrore che si infiltra silenzioso nella quotidianità. Come nei romanzi di Ray Bradbury (Fahrenheit 451) o nei racconti di Dino Buzzati (Il colombreLa boutique del mistero), la minaccia più grande non è fuori: è dentro, è il sonno della coscienza.

Oesterheld crea un eroe corale, collettivo, fragile: non c'è un “salvatore”, ma un uomo comune, Juan Salvo, che combatte nel nome della sopravvivenza e della memoria. Proprio come accade nel cinema di Chris Marker (La Jetée) o nelle pagine di Stanisław Lem (Solaris), il viaggio nello spazio è sempre viaggio interiore.

Ma la serie Netflix sembra ignorare tutto questo. Sostituisce la complessità con la frenesia, l’introspezione con l’effetto speciale. Come se la profondità dovesse sempre cedere al ritmo, come se il tempo dell’immaginazione non avesse più diritto d’esistere.

Per respirare immagini vere, ci si rivolge altrove. A Twin Peaks – The Return, dove Lynch fa esplodere la serialità come forma d’arte, come allucinazione. A Satoshi Kon (Perfect BluePaprika), che racconta la psiche in frantumi attraverso l’animazione. O ad Aleksei German con È difficile essere un dio, film estremo, cupo, visionario, in cui la fantascienza diventa una domanda: cosa resta dell’umano quando tutto è fango?

E poi, sempre, Tarkovskij. Lo sguardo che interroga, che invita a rallentare, a contemplare. Nei suoi film (StalkerNostalghiaLo specchio), non succede nulla. Eppure accade tutto: l’interiorità si rivela, il tempo diventa materia, l’invisibile prende forma.

Viviamo in un’epoca che diffida della lentezza e quindi rifiuta la profondità. Le piattaforme sommergono di immagini, ma poche sono davvero visioni. Una visione non si consuma, si attraversa. Ti cambia. Le antivisioni, invece, sono comode. Sono digeribili. Sono redditizie. E pericolose: fanno dimenticare come si guarda davvero.

Siamo inondati da “contenuti”, ma abbiamo fame di senso. È difficile scegliere, è difficile resistere, ma è necessario. Non per nostalgia, ma per sopravvivenza spirituale. Il futuro sarà di chi saprà custodire la meraviglia. E la meraviglia, oggi, si trova dove meno si guarda: nei silenzi di una poesia di Celan, nella geometria delirante di Escher, nei quadri di Remedios Varo, nei paesaggi sonori di Brian Eno.

Lo canta Battiato:

“Ma quando ritorno in me
Sulla mia via, a leggere e studiare
Ascoltando i grandi del passato
Mi basta una sonata di Corelli
Perché mi meravigliosi del creato.”

Ogni creazione autenticamente umana è un atto di resistenza. Un gesto che sfida il rumore con la luce. Un passo che rompe il formicaio.

Carlo Di Stanislao

Fattitaliani

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