La fine dell’egemonia: cultura, propaganda e altre fiction di Stato

 


“La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.” – Karl Marx

Ci sono molti modi per cominciare questo articolo. Il più spietato – e perciò inevitabile – è partire da un dato: Alessandro Giuli, ministro della Cultura della Repubblica Italiana, ha recentemente dichiarato che la sinistra ha perso l’egemonia culturale perché i suoi autori non vendono più. Un’affermazione a metà tra la provocazione da talk show e il tema da liceo mal svolto. Ma andiamo oltre: il libro dello stesso Giuli, Antico presente, pubblicato il 15 aprile, ha venduto in tre settimane la formidabile cifra di 328 copie.
Ripetiamolo, ché la retorica ha bisogno di rintocchi: 328.
Il numero di un’assemblea condominiale, non di un Paese che dovrebbe essere traghettato culturalmente fuori dal “dogma progressista”.

Ora: se vendere libri è la misura della legittimità culturale, allora il ministro Giuli si è appena delegittimato da solo. Se invece non lo è, allora tutta la sua tesi crolla nel vuoto come una scenografia cartapesta. In entrambi i casi, non proprio un bel trailer per un film chiamato “nuova egemonia culturale della destra”.

E mentre in Italia si confonde ancora la cultura con la classifica di Amazon, a Cannes – il festival più europeo, più intellettuale, più chic – si apre con Quentin Tarantino, si onora Robert De Niro e si celebra Leonardo DiCaprio. Tre americani, tre totem del Novecento. È l’egemonia USA o la senescenza dell’Europa, che riesce a importare solo nostalgia travestita da prestigio?
Nel frattempo, i cineasti italiani chiedono fondi pubblici per continuare a esistere, ma non nel nome dell’arte: nel nome del lavoro. Sì, perché anche il cinema, come l’automotive, ha una filiera. E dire “niente più fondi al cinema” è come dire “chiudiamo le fabbriche, poi si arrangiano”.
È curioso che lo capisca Salvini per l’auto, ma non Giuli per l’arte.
Dev’essere che gli operai sono più fotogenici dei truccatori.

Torniamo a Hollywood. L’ultimo Mission: Impossible, girato in Sudafrica e Norvegia, è ancora più americano di Tom Cruise stesso. Eppure, siccome Trump ha ormai deciso che ogni conversazione – anche una première – deve passare da lui, alla prima in Corea chiedono a Cruise un’opinione sui dazi. Cruise, con astuzia e senso della scena, replica: “Preferiremmo domande sul film”.
Tradotto: lasciate perdere la politica, qui si fa intrattenimento.
Peccato che l’intrattenimento sia politica. Solo più ben truccata.

Sul Financial Times, Rana Foroohar ha colto perfettamente il punto. La proposta di Trump – dazi sui film per “proteggere” Hollywood – è un’idiozia economica ma un colpo di genio politico. Hollywood, come gli operai del Midwest, è terrorizzata. Non solo dai salari asiatici, ma dalle tecnologie, dall’intelligenza artificiale, dalla frammentazione del mercato. L’industria dei sogni è diventata incubo precario.
E allora Trump promette un grande ritorno. Non lo farà. Ma nel frattempo fa sentire tutti dentro una narrazione.
Cioè dentro l’egemonia vera. Quella che conta.

E l’Italia? L’Italia gioca ancora a Risiko culturale, spostando soldatini immaginari sulle mappe di carta velina. Il ministro Giuli pensa che basti occupare i vertici, intitolare qualche evento a Evola, tagliare un po’ di bandi a sinistra, e oplà: il Paese è redento.
No, ministro. L’egemonia non si annuncia. Si esercita. E per esercitarla servono idee, estetiche, linguaggi, potenza simbolica. Non monologhi da salotto e trecentoventotto copie vendute.

Nel frattempo, fuori dal Palazzo, la nuova classe lavoratrice culturale – montatori, musicisti, sviluppatori, illustratori, doppiatori, scrittori, e pure qualche lettore superstite – vive nell’ansia di una rivoluzione tecnologica che promette futuro ma consegna precarietà. E se un ministro della Cultura non capisce che questa è la vera questione culturale del presente, allora stiamo giocando a una recita.
Male anche.

L’egemonia oggi non è né di destra né di sinistra. È di chi ha capito come costruire narrazioni, come tenerci incollati agli schermi, come monetizzare il nostro bisogno di senso. E su questo, piaccia o meno, la destra trumpiana ha più fiuto di quella italiana.
Che ancora confonde il potere culturale con un palco da occupare. E i lettori con un target da punire.

Intanto, il ministro continua a spiegare alla sinistra come si fa cultura.
E noi continuiamo a contare le copie.
Carlo Di Stanislao
Foto dal sito frasicelebri.net

Fattitaliani

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