Fabrice Murgia a Fattitaliani: l'opera è il luogo più transdisciplinare dello spettacolo dal vivo. L'intervista

 

Foto di Andrea Denaif

di Giovanni Chiaramonte - Fabrice Murgia è una delle voci più originali del teatro europeo contemporaneo. Regista e autore belga, ha conquistato attenzione internazionale fin dagli esordi, ricevendo il Leone d’Argento alla Biennale di Venezia e dirigendo per cinque anni il Théâtre National Wallonie-Bruxelles. Fondatore della compagnia Artara, il suo lavoro intreccia nuove tecnologie, immagini potenti e interrogativi esistenziali, dando forma a un teatro visionario e profondamente umano. 

In occasione della sua Cenerentola (recensione di Fattitaliani) al Grand Théâtre de Luxembourg (una produzione Opéra National de Lorraine), lo abbiamo incontrato per scoprire il cuore e la visione dietro una delle regie più sorprendenti della stagione.

Fabrice, sei un poeta, ci metti le mani, crei capolavori. Qual è il segreto per riuscirci nell’opera?

Nell’opera mi piace molto lavorare perché richiede una grande preparazione. Non direi che sia più facile del teatro, dove a volte si parte dal nulla. Però abbiamo un punto di riferimento: sappiamo quanto durerà. C’è la partitura, ovviamente – a meno che non si tratti di una creazione originale. Ma questo si adatta perfettamente al mio modo di lavorare, perché preparo molti storyboard, immagini, lavoro molto sulle dinamiche visive.

L’opera, fin dai primi lavori di Monteverdi o Cavalli, era considerata una fusione tra pittura, poesia, musica e magia – le ninfe, si diceva. E per me, l’opera è proprio questo. È il luogo più transdisciplinare dello spettacolo dal vivo. Bisogna conoscere bene i teatri dove si lavora, le loro regole, i cantanti. Il segreto – se c’è – è mettere sempre la musica al centro. Non si può andare contro la musica. Se la si comprende un minimo, si capisce che non si può, ad esempio, mettere un cantante troppo lontano. Ci sono vincoli, ma una volta assimilati, ci si può davvero divertire. Qui spesso si crea un’azione scenica. I recitativi servono a far avanzare la storia. E poi si lascia spazio alla dimensione suprema: l’aria. Rossini va rispettato alla lettera: le battute le ha scritte lui, non noi. Possiamo aggiungere qualcosa, certo, perché è una commedia. È teatro all’italiana, e io lo adoro. Anche Goldoni mi piace molto. Non ho mai messo in scena dei classici a teatro, ma li ho recitati come attore. È un teatro fatto di rotture, di ritmo secco. E questo è anche tipico dell’italiano – in francese è più difficile da rendere, secondo me.

Sei riuscito a rendere moderna la messinscena di Rossini.

Cenerentola richiede decisamente una rilettura contemporanea. Se si guarda, ad esempio, la versione della Scala su YouTube, si nota quanto sia superata la visione della donna. Ma si può dire tutto – anche con umorismo. L’umorismo è un’arma micidiale. Si può parlare delle donne oggi se c’è autoironia, e se Cenerentola diventa davvero la protagonista – cosa che non accade in tutte le versioni.

Come sei arrivato fin qui? Qual è stato il tuo percorso?

Ho iniziato con il teatro contemporaneo. Poi ho lavorato in Belgio con l’Ode Musique Théâtre, che unisce registi e compositori. A poco a poco, mi hanno chiesto di affrontare il repertorio classico. Credo di aver cominciato con Il Turco in Italia di Rossini. Poi sono venuti altri Rossini, Massé, e via dicendo.

Dove sta andando l’opera oggi?

In tante direzioni. Io la amo proprio per la sua varietà. I teatri d’opera oggi sono messi a dura prova, perché l’opera richiede scenografie, produzioni, personale… È un’arte che resiste male ai tagli di bilancio. Anche la musica antica tende a scomparire. È uno spazio da difendere. In Francia fa ancora parte della cultura, anche se meno che in Italia. Ma in altri paesi è davvero a rischio.

E il tuo futuro da creatore? Idee, sogni?

Sogno spettacoli ibridi. All’opera posso ancora lavorare con la tecnica, che nel teatro tende a scomparire. Faccio anche spettacoli di strada con i cittadini. Non ho ancora fatto teatro per bambini, ma mi piacerebbe. Mi piace toccare un po’ tutto. 

In Cenerentola c’è anche un tocco belga, direi. E le tue origini, influenzano il tuo lavoro?

Sì. Mio padre era italiano, arrivato in Belgio con l’accordo sul carbone per lavorare in miniera. Mia madre è figlia di un rifugiato politico spagnolo. Vengo da una famiglia popolare. Non si andava a teatro. Ho iniziato a frequentarlo con la scuola. È un vantaggio: non sono stato condizionato da spettacoli visti da bambino. Sono cresciuto con il cinema popolare. Questo mi dà libertà, anche se da giovane mi sono chiesto se fosse il mio posto. Ora non più.

Le tue fonti di ispirazione? Leggi? Che musica ascolti?

Amo molto la musica antica. Mi fa vibrare. È l’inizio del racconto, è epica. Leggo pochi romanzi, più sociologia, saggistica politica, geopolitica. Mi interessa lo stato del mondo, le sue tensioni. Mi ispirano anche i film naturalisti: i fratelli Dardenne, Ken Loach… quel modo di raccontare l’umanità riproducendo il reale con un piccolo scarto. Sul palco, mi piace provare cose nuove.

Dove stai andando come artista?

Verso spettacoli sempre più musicali, magari con scienziati in scena, opere più “esplose”. Nel 2027 faremo Sogno di una notte di mezza estate al Théâtre National, in più sale contemporaneamente, con il pubblico libero di spostarsi.

Grazie.

Grazie a te.

La Cenerentola, Opéra national de Lorraine © Simon Gosselin

En Français

par Giovanni Chiaramonte – Fabrice Murgia est l'une des voix les plus originales du théâtre européen contemporain. Metteur en scène et auteur belge, il a attiré l'attention internationale dès ses débuts, recevant le Lion d'argent à la Biennale de Venise et dirigeant pendant cinq ans le Théâtre National Wallonie-Bruxelles. Fondateur de la compagnie Artara, son travail mêle nouvelles technologies, images puissantes et questionnements existentiels, donnant vie à un théâtre visionnaire et profondément humain.

À l'occasion de sa Cenerentola au Grand Théâtre de Luxembourg (une production de l’Opéra National de Lorraine), nous l'avons rencontré pour découvrir le cœur et la vision derrière l'une des mises en scène les plus surprenantes de la saison.

Fabrice, tu es un poète, tu mets les mains dans la matière, tu crées des chefs-d’œuvre. Quel est le secret pour réussir cela dans l’opéra ?

Ce que j’aime dans l’opéra, c’est que cela demande une grande préparation. Je ne dirais pas que c’est plus facile que le théâtre, où l’on part parfois de rien. Mais ici, on a un repère : on sait combien de temps cela va durer. Il y a la partition, évidemment – sauf lorsqu’il s’agit d’une création originale. Mais cela correspond parfaitement à ma manière de travailler, car je prépare beaucoup de storyboards, d’images, je travaille beaucoup sur les dynamiques visuelles.

L’opéra, dès les premières œuvres de Monteverdi ou de Cavalli, était considéré comme une fusion entre la peinture, la poésie, la musique et la magie – on parlait des nymphes. Et pour moi, l’opéra, c’est exactement cela. C’est le lieu le plus transdisciplinaire du spectacle vivant. Il faut bien connaître les théâtres dans lesquels on travaille, leurs règles, les chanteurs. Le secret – s’il y en a un – c’est de toujours mettre la musique au centre. On ne peut pas aller contre la musique. Si on la comprend un minimum, on sait qu’on ne peut pas, par exemple, placer un chanteur trop loin. Il y a des contraintes, mais une fois intégrées, on peut vraiment s’amuser. Ici, on crée souvent une action scénique. Les récitatifs servent à faire avancer l’histoire. Et puis, on laisse la place à la dimension suprême : l’air. Rossini doit être respecté à la lettre : c’est lui qui a écrit les blagues, pas nous. On peut en rajouter, bien sûr, parce que c’est une comédie. C’est du théâtre à l’italienne, et j’adore ça. J’aime aussi beaucoup Goldoni. Je n’ai jamais monté de classiques au théâtre, mais je les ai joués en tant qu’acteur. C’est un théâtre fait de ruptures, de rythme sec. Et cela, c’est aussi typique de l’italien – je trouve que c’est plus difficile à rendre en français.

Tu as réussi à moderniser la mise en scène de Rossini.

Cenerentola demande clairement une relecture contemporaine. Si l’on regarde, par exemple, la version de la Scala sur YouTube, on se rend compte à quel point la vision de la femme est dépassée. Mais on peut tout dire – même avec humour. L’humour est une arme redoutable. On peut parler des femmes aujourd’hui s’il y a de l’autodérision, et si Cenerentola devient réellement le personnage principal – ce qui n’est pas toujours le cas dans toutes les versions.

Comment es-tu arrivé jusque-là ? Quel a été ton parcours ?

J’ai commencé par le théâtre contemporain. Ensuite, j’ai travaillé en Belgique avec l’Ode Musique Théâtre, qui associe metteurs en scène et compositeurs. Petit à petit, on m’a demandé de me confronter au répertoire classique. Je crois que j’ai commencé avec Il Turco in Italia de Rossini. Puis sont venus d’autres Rossini, Massé, etc.

Où va l’opéra aujourd’hui ?

Dans de nombreuses directions. Moi, je l’aime pour sa diversité. Les maisons d’opéra sont aujourd’hui mises à rude épreuve, car l’opéra exige des décors, des productions, du personnel… C’est un art qui résiste mal aux coupes budgétaires. Même la musique ancienne tend à disparaître. C’est un espace à défendre. En France, cela fait encore partie de la culture, même si moins qu’en Italie. Mais dans d’autres pays, c’est vraiment menacé.

Et ton avenir de créateur ? Des idées, des rêves ?

Je rêve de spectacles hybrides. À l’opéra, je peux encore travailler avec la technique, qui tend à disparaître au théâtre. Je fais aussi des spectacles de rue avec des citoyens. Je n’ai pas encore fait de théâtre pour enfants, mais j’aimerais bien. J’aime toucher un peu à tout.

Dans Cenerentola, il y a aussi un côté belge, dirais-je. Et tes origines, influencent-elles ton travail ?

Oui. Mon père était italien, arrivé en Belgique avec les accords charbon pour travailler à la mine. Ma mère est fille d’un réfugié politique espagnol. Je viens d’une famille populaire. On n’allait pas au théâtre. J’ai commencé à y aller avec l’école. C’est un avantage : je n’ai pas été influencé par des spectacles vus enfant. J’ai grandi avec le cinéma populaire. Cela me donne de la liberté, même si, jeune, je me suis demandé si c’était ma place. Ce n’est plus le cas aujourd’hui.

Quelles sont tes sources d’inspiration ? Tu lis ? Quelle musique écoutes-tu ?

J’aime beaucoup la musique ancienne. Elle me fait vibrer. C’est le début du récit, c’est épique. Je lis peu de romans, plutôt de la sociologie, des essais politiques, géopolitiques. Je m’intéresse à l’état du monde, à ses tensions. Je suis aussi inspiré par des cinémas plus naturalistes : les frères Dardenne, Ken Loach… cette manière de raconter l’humanité en reproduisant le réel avec un léger décalage. Sur scène, j’aime essayer des choses nouvelles.

En tant qu’artiste, où vas-tu ?

Vers des spectacles encore plus musicaux, peut-être avec des scientifiques sur scène, des œuvres plus “éclatées”. En 2027, nous ferons Le Songe d’une nuit d’été au Théâtre National, dans plusieurs salles en même temps, avec un public libre de circuler.

Merci.

Merci à toi.

Fattitaliani

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