È il 4 giugno del 1989 e un gruppo di amici parte in direzione Milano per seguire la loro squadra del cuore in trasferta: la Roma.
Daniele, si prepara in casa e saluta mamma e papà prima di salire in macchina con Pietro, Roberto e Antonio. Armati di panini con mortadella e sciarpe giallorosse i ragazzi sono pronti a “conquistare” la fredda Milano. Quattro adolescenti che si divertono a fare i grandi: “Quanto ce piaceva gioca’ a esse’ Ultrà” Incantanti da quei colori e dai continui cori, camminano sognanti per il vialone che li porta allo stadio. Ma spesso i sogni fanno a pugni con la realtà. Una realtà, quella, dove i grandi, non sono proprio ciò che ti immagini. Ed è così che la violenza prende il sopravvento, per giochi di potere e prevaricazione, dove spesso il forte è forte con i deboli; in questo caso con dei giovani ragazzi che non volevano far altro che tifare la propria squadra e tornare a casa da mamma. È il 4 giugno del 1989 e insieme ad Antonio, quel giorno a Milano, siamo morti un po’ tutti.È da una casa di un appartamento che partirà la narrazione del racconto. Daniele, un ventenne di fine anni 90, ci accompagnerà nel rivivere quel 4 giugno del 1989. I piani di narrazione saranno due, tutti e due dettati da Daniele stesso, che alternerà racconto a vita vissuta, un narratore che entra nella scena e la accende. La scenografia si muove con lui e cambia forma creando, con tubi metalli, in maniera asettica, le diverse ambientazioni. Partiamo da una casa per arrivare ad un vialone alberato, passando per una macchina, un treno, un autobus ed un bar.
Sarà
in questi luoghi che ripercorreremo la giornata, ma anche un po’ la vita
stessa, di quei quattro ragazzi (solo tre in scena) giovani e sognatori.
Cercando
di mettere in luce, senza alcun giudizio, l’inconsapevole spensieratezza
giovanile che può finire da un momento all’altro, senza volerlo, senza un
minimo di preavviso, quando si gioca a fare i grandi con dei grandi che poi
tanto saggi non sono.
“È
una storia da non raccontare, è una storia da dimenticare” canta de André
parlando, metaforicamente, della morte di Pasolini. Quella di Antonio de Falchi
potrebbe essere una storia pasoliniana, di un ragazzo adolescente di una
periferia romana popolare e affaticata; potrebbe essere una ballata di de André
sull’ingiustizia e la tragica fatalità della vita; quello che è sicuro è che,
questa storia, è davvero una storia sbagliata. Ma è da raccontare.
Una
storia di amicizia immersa completamente nella fine degli anni 80, in una Roma
popolare piena di rivalsa e di sogni borghesi, di piazze piene di bambini con
palloni che rimbalzano sulle saracinesche e di rumori nei mercati. In quel
contesto un gruppo di ragazzi, che cresce negli oratori a condividere sigarette
proibiti e baci adolescenziali, condivide la fede per la squadra della propria
città.
Un
amore viscerale ma anche un pretesto per stare insieme, passare la domenica
insieme, cantare abbracciarsi e piangere. E soprattutto, sognare di essere
grandi. Ma i grandi in questa storia non giocheranno il ruolo dei buoni, anzi,
il sogno di esser grandi è proprio ciò che non farà mai diventare grande uno di
loro.