di Mariano Sabatini
Gli
scrittori hanno il privilegio di trasformare il dolore in rappresentazione
artistica, non fa meno male ma almeno serve ad altri. Serve ai lettori che
attraverso i percorsi di narratori come Crocifisso Dentello, appena giunto
nelle librerie con Scuola di solitudine (La
nave di Teseo), hanno l’opportunità di comprendere, partecipare e forse
elaborare per conto terzi le proprie perdite. Alla seconda prova di questo tipo
(in Tuamore aveva detto
magnificamente tutta la sua disperazione per la morte della madre), Dentello
dimostra di saper rendere il lutto come la vita consustanziali alla letteratura,
oltre l'autofiction, l'afflizione che diviene minimale epica dei giorni. E simbolo:
Melina madre perduta di ogni orfano che non si rassegna, che non ha nessuna
intenzione di rassegnarsi e che soprattutto non smette di piangere la dipartita
di un affetto strappato. In questo senso la solitudine diviene partecipata, per
certi versi universale. Se ha un senso fare libri, questo è uno dei più
significativi.
L’amore per la tua mamma incanta
i lettori e non potrà mai finire. Melina continua a portarti bellezza,
riconoscenza, affetto?
Il
dolore per la morte di mia madre è una ferita che non guarirà mai. Se n’è
andata a 62 anni. Troppo presto. Avevamo un pezzo di vita da percorrere ancora
insieme. Scrivere e pubblicare Tuamore
ha significato non disperdere la sua memoria. Sono convinto che raccontarla e
condividerla con tanti lettori sia la forma d’amore e di riconoscenza più alta
che potevo tributarle come figlio.
Che tipo di resistenze interne
hai dovuto superare per scrivere Tuamore e Scuola di solitudine?
Nessuna.
Il dolore mi ha tolto la vergogna e ha trasformato la mia scrittura per sempre.
“Scendo” sulla pagina con una sincerità che mi deve far male perché altrimenti
non riuscirei a raccontarmi. Se penso a cosa dissimulare o a cosa truccare mi
paralizzo. Quando abbandono ogni tipo di prudenza, in una specie di immersione
spudorata e persino autolesionista, le pagine si accumulano da sé.
La solitudine è uno strumento
del mestiere per lo scrittore?
Temo
di sì. Non mi riferisco soltanto a quella solitudine occasionale che ciascuno
scrittore si ritaglia per pensare e creare, lontano dal frastuono quotidiano.
Penso a una solitudine interiore, a sentirsi ferocemente incompresi a dispetto
di qualsiasi mano tesa. Scrivo perché mi percepisco come una vittima.
Come si supera, se si supera, il risentimento nei confronti di genitori inadempienti, inadeguati o addirittura dannosi?
Mio
padre è stato per lungo tempo un tiranno, incapace di cogliere e accogliere la
mia natura più intima. Eppure mi sono riconciliato perché sono convinto che la
guerra col “nemico” si combatta ad armi pari. Non è più tempo di rivalse. La
fragilità oggi gli consente di comprendermi. Il passato mi appare così meno
insopportabile.
Dal dolore e solo dal dolore si
genera la letteratura?
La
mia certamente sì. Forse mi ripeto ma la scrittura per me è un disperato
esorcismo contro il dolore. Un momento di felicità lo si vive con distrazione,
lo si consuma per il fatto stesso di esistere. La sofferenza è sempre intollerabile,
è sempre una indebita violenza. Ecco perché ci costringe a fermarci per interrogarla.
Avresti fatto a meno di quella
che chiami nel romanzo una morbida persecuzione
che ti ha consentito di
diventare scrittore?
Chissà.
Avrei avuto una vita certamente più serena. Mi sarei goduto infanzia e
adolescenza, che ho lasciato passare come treni in velocità. Il paradosso è che
la mia amata scrittura nasce proprio come risposta alla morbida persecuzione di
mio padre e dei miei coetanei. La scrittura mi ha consentito di trovare un
posto nel mondo. Mi domando col senno di poi se essere persino grato ai miei
aguzzini.
Sappiamo che il tuo primo
romanzo, Finché dura la colpa, lo hai
scritto assecondando “lampi intermittenti di ispirazione”. È stato così anche
per i successivi?
È
stato così per i miei primi due romanzi, entrambi di invenzione. Sempre una
faticaccia. Non sapevo mai quale scena avrebbe seguito la precedente. Non
sapevo mai quale stile adottare per rendere giustizia ai personaggi. Tuamore e Scuola di solitudine mi hanno insegnato una disciplina, un metodo e
una voce. La “sincerità indifesa”, per scomodare le parole che mi ha tributato
Walter Siti, si rivela una traccia sicura.
In Scuola di solitudine citi De
Amicis per Cuore e Bassani per Dietro la porta, due autori poco considerati.
Hanno fatto parte delle tue letture?
Certamente.
Non a caso due romanzi ambientati tra i banchi di scuola. Ricordo che ricevetti
in regalo all’inizio della terza elementare dalle mani di mio padre Cuore. Scuola di solitudine è un omaggio esplicito, anche in diversi
rimandi, a Dietro la porta. Romanzo
che mi ha sempre accompagnato perché il narratore si comporta come me al
cospetto del suo amico traditore. Nessuna vendetta può guarire “la ferita
originaria.”
Anche nelle letture sei, per
così dire, eccentrico?
Sono
da sempre onnivoro. Capace di leggere in parallelo brani della Recherche e un noir di Mickey Spillane.
Non so se sia indice di eccentricità ma le letture che mi hanno formato sono
tutte nel perimetro del secondo Novecento italiano. Penso a Fenoglio, Soldati,
Arpino, Piovene, Ortese, Lalla Romano e tanti altri. Non ho mai scontato il
plagio a stelle e strisce.
Scrivi “la letteratura si è
presa il suo spazio perché la vita non è riuscita a mitigare alcunché”. Non c’è
scampo allora?
Come
uomo non sono riuscito a venire a patti con la morte di mia madre e con questo
dolore che mi accompagna come una febbre quotidiana. Come scrittore sono stato
più fortunato perché il dolore, razionato in parole dentro un libro, sembra quasi
di poterlo vincere. Quasi, purtroppo, quasi.
Com’è oggi la tua vita?
Triste
perché il destino mi ha inferto il colpo più duro. La tristezza tuttavia
propizia la mia creatività e quando creo sento di potere andare avanti.
Scrivere è una forma di salvezza. Spero, in un giorno non troppo lontano, di
riuscire a trovare un po’ di pace.