Il filosofo contemporaneo Charles Larmore afferma che ogni ‘io’ è tale in virtù di un essenziale rapportarsi a se stesso.
Tale conoscenza dell’io, che per il filosofo ha carattere prettamente pratico-normativo dell’autoesperienza, avviene nella sfera della connessione fra credenze e comportamenti e implica uno spostarsi all’esterno di sé.Ma come è possibile ciò?
Cosa può determinare una fuoriuscita dell’io da se stesso, ammesso che sia possibile, permettendogli addirittura l’osservazione delle sue credenze e dei suoi comportamenti, senza mai perdere la connessione con se stesso?
A queste domande, spesso
utilizzate per confutare la tesi di Larmore, si può invece rispondere con due
strumenti: la lettura critica e attenta di un testo, soprattutto se affrontata
ripetutamente in diverse età, e la scrittura derivante da essa. Ne è Esempio il
Kafka di Bruni (Kafka – La verità tragica, Solfanelli Editore) o, meglio, la sua rilettura
intesa come esperienza di fuoriuscita del proprio io da sé e di riconnessione
con se stesso nell’ambito delle proprie credenze e dei propri comportamenti
influenzati dal confronto con un Kafka che, di volta in volta, assume un
significato proprio e differente.
Già nella prefazione del saggio, Bruni scrive:
«Kafka mi accompagna da epoche che credevo immortali. Ovvero dalle giovinezze. Franz Kafka è un’agonia rivisitata spesso. […] Rivisitare queste pagine mi costa fatica. Una volta scritte non vorrei più rileggerle. Ma dovrò farlo per non cedere alla tentazione dell’errore e dell’incompiuto.»
Un approccio alla lettura di uno
scrittore sicuramente singolare e che si inscrive perfettamente in quell’atto
di esternalizzazione momentanea dell’io costretto così a vedersi, a conoscersi.
Un io, dunque, che Ponzio affermerebbe si pone su un piano diverso ed esterno.
Cosa, se non la lettura
reiterata, ci permette di farlo?
Leggere è ritrovarsi in uno stato di sospensione del reale, pur non penetrando mai davvero in un altrove. Leggere è un atto contemporaneamente di disconnessione e riconnessione dell’io da sé. Rileggere lo è ancora di più. Rileggersi, fra gli appunti lasciati ai margini di una pagina inchiostrata è un conoscersi spiralico fra comportamenti e convinzioni che si rinnovano o si rigettano.
Per questo, forse, rileggere Kafka è per Bruni un’agonia che si rinnova ogni volta.
È il suo ‘io’ che si pone in
ascolto di sé da un piano differente dal consueto spazio interiore, che si
conosce e si interiorizza ogni volta per poi doversi smentire e riapprocciarsi
a se stesso ad ogni nuova ri-lettura. È un viaggio solitario, che non ha i
connotati dell’avventura o dell’abitudine, ma dell’osservazione diretta.
E, in qualche modo, lo stesso Bruni lo conferma nell’ultimo capitolo, mentre è riverso sul manoscritto, girovagando in una sua personale Praga dai contorni sfumati:
«Raccontare è pensare. Pensare è oltre a ciò che si racconta. Scrivere è meditare. Meditare su ciò che dovrà scrivere oltre ciò che si sta scrivendo. Perché raccontare e scrivere si realizzano in un viaggio nella solitudine.»
Forse, è proprio questo che fa di
Kafka – La verità tragica un saggio unico nel suo genere. Non una
“semplice” analisi e né “solo” uno studio approfondito degli scritti e dello
scrittore, ma un’autoesperienza che si esplica attraverso una scrittura che,
profondamente, sa portarne il peso.
Rosaria Scialpi