LIBRI, ARTURO CAISSUT: “IN ANIMA E CARBONIO HO PROVATO A INDAGARE IL SIGNIFICATO DELLA PAROLA UMANITÀ”



di Francesca Ghezzani

Con dieci racconti visionari e sapientemente costruiti, Arturo Caissut – nella vita Ingegnere Biomedico - ci porta nella dimensione più affascinante della fantascienza, quella che oltre a ipotizzare il domani offre l’opportunità della riflessione per l'implicita correlazione con l’oggi.

Anima e carbonio è una raccolta che dal titolo va alla sua sostanza: racconti che trovano sede al confine tra la tecnologia e la coscienza morale e, in ultima analisi, nella materia prima della vita.

Arturo, il protagonista è l’essere umano in epoche disumanizzate. Cosa si nasconde dietro questo apparente ossimoro?

Credo che tutto parta da una considerazione: siamo una specie formidabile, il nostro cervello (per quanto ne sappiamo) è l’unica entità nell’Universo in grado di definire sé stessa. È questa capacità a renderci umani? Non saprei: di sicuro possediamo un insieme di caratteristiche difficili da circoscrivere che ci rendono quello che siamo. E penso sia altrettanto sicuro che in modo figurato o letterale sia possibile perdere alcune di queste caratteristiche: se smettessimo di provare emozioni ad esempio saremmo ancora umani? E se costruissimo una macchina tanto avanzata da riuscire a farlo, avremmo creato un altro essere umano? In quel caso che ne sarebbe di noi? Ho provato a giocare un po’ con questi e altri interrogativi sul significato della parola Umanità, spostando il punto focale nel futuro sia per avere più libertà creativa che per tentare di fare una cosa che è tipica di un certo tipo di fantascienza: provare timidamente a lanciare dei moniti, indicare alcune strade possibili e dire “Meglio se cerchiamo di non andare da quella parte, la destinazione potrebbe non piacerci.”

L’intelligenza artificiale: crisi o opportunità a tuo avviso?

Sono un po’ di parte, avendo lavorato per tanti anni con l’automazione, l’AI e tematiche affini, però credo che si tratti innanzitutto di una grande opportunità: sempre più compiti possono essere delegati a surrogati tecnologici, cosa che implica lasciare più tempo libero a noi per essere creativi, sognare, inventare. Certo, la paura diffusa di vedersi togliere il lavoro da una macchina è comprensibile: tutto dipende da quanto saremo bravi e forse virtuosi a livello sociale e manageriale nell’assicurarci che la disponibilità di questi strumenti non diventi una leva per indebolire i diritti dei lavoratori. L’altra paura diffusa relativa all’AI, quella che esploro anch’io in alcuni punti della mia raccolta, ovvero l’idea per cui prima o poi le macchine debbano farci estinguere, a mio avviso è meno giustificata. Proprio ieri ho conseguito un master in Filosofia della Scienza con una tesina che parlava di questo: ho analizzato la percezione di robot e AI da parte del pubblico attraverso uno studio di opere di cultura popolare (classici della letteratura, dell’animazione, del cinema). L’idea che mi sono fatto è che proiettiamo sulle macchine gli istinti più distruttivi della nostra specie: sospettiamo che una qualche AI sufficientemente avanzata debba per forza volerci sterminare perché è quello che noi faremmo al suo posto. Fin dal primo uso documentato della parola “robot” in letteratura l’esito immaginato dall’autore è stato lo stesso: ribellione delle macchine, guerra, genocidio. Era il 1920, di lì a breve avremmo dimostrato per l’ennesima volta che non ci servono robot per ammazzarci a vicenda.

Troviamo annunciate apocalissi. Quale rimane l’interrogativo più grande dell’uomo?

Senza ombra di cinismo e con grande serenità: l’Apocalisse prima o poi arriverà, nel senso che un giorno lontano (speriamo molto) la nostra specie cesserà di esistere. Potremo prolungare la nostra permanenza sulla Terra preservandone l’equilibrio, potremo prolungarla nell’Universo se riusciremo a espanderci oltre il nostro sistema solare per tempo, però prima o poi non ci saremo più. Questo non è un bene né un male, è semplicemente un fatto. Detto questo, a mio avviso la domanda più importante è questa: cosa possiamo fare per rendere migliore possibile il tempo che rimane alla nostra specie? Credo che ognuno debba trovare la propria risposta, non è necessario essere santi o filantropi: basta pensare ai nostri figli, nipoti o pronipoti, in senso letterale o figurato, e pensare a come vorremmo essere ricordati da loro. La vita umana è breve, quella della nostra specie sarà ancora lunga: se mi dicessero che morirò domani correrei a piantare un albero di ciliegio in qualche giardino. Io non lo vedrò fiorire ma qualcuno sì, e magari per quel qualcuno quell’albero sarà importante.


Scienza e arte: dove trovano il punto di incontro secondo la tua esperienza e formazione?

Si intersecano continuamente: per quanto bello sia il mito romantico del genio ispirato che non ha bisogno di regole, la realtà è che ogni disciplina artistica di regole ne ha eccome, specie quelle non scritte, ed è lì che di solito si trova la scienza. La matematica, ad esempio, è alla base della musica ma è centrale anche nell’arte pittorica o nella scultura. In paesi come il nostro si tende a creare una contrapposizione un po’ artificiale tra scienza e arte già sui banchi di scuola e a mio avviso questo è un peccato: chissà quanti grandi artisti ci stiamo perdendo tra i ragazzi che pensano che studiare materie tecniche sia l’unica cosa importante da fare, e chissà quanti contributi scientifici potremmo avere da ragazzi che in questo momento frequentano il liceo artistico: le contaminazioni tra discipline diverse sono importantissime e andrebbero incentivate. Io personalmente ho sempre cercato di seguire entrambe le spinte: ho studiato Ingegneria ma ho sempre coltivato la scrittura, e credo che le due cose si siano supportate a vicenda.

In chiusura, cosa dovremmo imparare dal passato per vivere meglio il presente e progettare il futuro?

Credo che il passato dia sostanzialmente tre tipi di lezioni: “non rifare questa cosa”, “rifai questa cosa”, “la prossima volta che farai questa cosa prima fai questo”. È una suddivisione un po’ semplicistica ma penso che ci siamo capiti: possiamo imparare dai nostri errori o imparare dai nostri successi, e la stessa cosa la possiamo fare con gli errori e i successi altrui. È facile limitarsi agli errori e scoraggiarsi: l’Umanità ha fatto tante cose tremende e tante altre ne farà, ed è necessario averne memoria per non ricascarci. Allo stesso tempo, e forse con intensità ancora maggiore, non dobbiamo cessare di lasciarci ispirare dai grandi del passato ma anche dai piccoli del passato, anche da noi stessi se è il caso. Forse la grande lezione del passato è questa: ricollegandomi alla prima risposta, siamo una specie formidabile, abbiamo la possibilità di fare molto di buono e molto di cattivo. Sta a noi tenerlo sempre presente.

Fattitaliani

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