Il percorso espositivo è
costituito di trenta opere, il risultato di una ricerca e di un metodo che
l’artista ha ottenuto lavorando con spatole e spatoline i colori ad olio su tele
dalle dimensioni medie, contenute, ad eccezione di qualche produzione che si
sviluppa raggiungendo la doppia metratura.
La mostra si affranca dal solito hortus
conclusus, dai piani bassi del Palazzo compie poi ardite incursioni nella
Pinacoteca, dove alcuni quadri dialogano con opere dallo stesso contenuto o
titolo: Inspired by God (2023) con il dipinto di Camillo Boccaccino Re
Davide (1533); Bilqis, Regina di Saba (2023) con La Regina di
Saba di Pier Francesco Ferrante (1652), Il sogno ricorrente di Prospero
(2023) con un dettaglio dell’opera di Francesco Monti (Il Brescianino), Mare in
burrasca con navi alla deriva (1670-80) e con le suggestioni delle immagini del film L’ultima tempesta
(Prospero’s Books) di Peter Greenaway.
Un’operazione alquanto audace che
intende creare un collegamento tra epoche diverse e stili diversi, riassunti e risolti
nella storia della tradizione della pittura, genere che si distingue nettamente
dagli altri (installazioni, video, performance, ecc.) non ancora codificati, e
questo prova la mancanza di una ampia visione critica da parte dei “critici”
odierni, abbacinati, dagli anni Settanta in poi, dal grande bluff del mercato,
al servizio del quale si sono asserviti.
Delle opere di L’Altrella si
potrà pertanto parlare a partire dalla tecnica, un tipo di analisi che pare
ormai dimenticata dai curatori, prezzolati imbrattatori delle riviste
specializzate e dei cataloghi (a parte alcune eccezioni, chiaramente); l’arte è
fare, techné, ma soprattutto capacità e qualità di fare, e cioè stile
personale, non è né sociologia né psicologia, bensì è il come d’un mezzo
tecnico parli dello sguardo dell’uomo in dialogo con quello del passato nella prefigurazione
di quello futuro: e non solo, come si sosterrà, dello sguardo dell’uomo ma
degli animali e della natura, e del cosmo.
Con L’Altrella ci si dovrà riferire
a spazi, linee, superfici, alla struttura portante di quel che è lo sguardo, e
che costituisce il fondamento di ogni vedere artistico, prima di passare a
qualsiasi interpretazione.
Per l’artista meneghino è il contrasto
tra il nero e il bianco che domina la tentazione di guardare. Lo sguardo sulla
tela viene orientato dai colori e dal loro dare forma e sostanza materica a un
contrasto. Il colore bianco, gettato e rinzaffato a colpi di spatola si
arrotola su se stesso insino a creare una sovraesposizione a forma di riccioli
d’onda, convincendo quel bianco a tramutarsi in puro movimento, a colore in
movimento grazie al contrasto degli opachi e degli scuri: accanto al bianco, un
marrone bluastro e il rosso mattone, con spruzzi di rosso sanguigno, incorniciati
nel nero più omogeneo.
Colori pastosi e un bianco grasso
evocano sensazioni da bancone di una macelleria visiva in atto.
Su quella dinamica, su quel
movimento si stende uno sguardo laido, voluttuoso. Un grasso si deposita sulle
cose, sulle forme di uomini e animali snaturandole, assimilandone a un solo
unico sacrificio, quello di una materia carnale in attesa della vendita. È lo
sguardo del consumismo, che incide il sarcoma dei corpi e ne trae il grasso, il
pus, le cellule cancerogene, le deiezioni. Non c’è più forma nitida, tutto è
sedimento, escrescenza, vanità.
L’artista dipinge nature morte
senza corpo, pure superfici, che insistono nello sguardo clinico dell’anatomopatologo.
Insomma, è il mellifluo, il
disadorno, l’escreto di uno sguardo della morte aleggiante sul panorama del
mondo terreno, laddove gli escrementi ricoprono l’indigestione visiva della
bulimia collettiva, degli uomini-schiavi ingrassati, obesi di terzo grado per
l’eccessivo consumo e per la lascite.
Lo spazio non esiste più (il
pianeta è ridotto a un ammasso di città e di periferie, e sulla tela di
L’Altrella si ripete questo addensarsi verso il centro d’ogni forma-colore),
l’autore ne ha raggrumato i confini esponendo la natura morta che è nello
sguardo dell’uomo-schiavo del capitale. Lo sguardo è un grumo che si avvicina
alla forma che sfugge, perché sempre in movimento.
Ecco, un’altra particolarità
tecnica di L’Altrella, data dalla creazione del movimento, ma in questo
continuo fuggire delle cose, degli spazi e del tempo ci si rispecchia:
fatalmente.
Che cosa vede lo sguardo
dell’uomo odierno se non un modificarsi della materia, un metamorfosare delle
cose in oggetti d’un desiderio vuoto, ben presto svuotato?
Il toro dipinto da L’Altrella
potrebbe essere un’onda del mare: che cosa si vedrebbe, si chiede Julien
Barbour, se una macchina fotografica potesse inquadrare quel che avviene nella
mente quando si guarda?
Ebbene, proprio questo, il fermo
immagine di un movimento, l’informe delle forme, l’atomizzazione del visibile e
dunque l’invisibile che si riproduce nella coscienza.
L’Altrella dipinge le piccole
morti in sequenza: se si fotografa il vivente in movimento, che cosa si
carpirebbe se non piccole sequenze di morte: la Natura Morta?
Da Rembrandt a Bacon a
L’Altrella, il percorso della forte impronta della mano sulla tela giunge a
fotografare l’invisibile morte nascosta in ciascun vivente, e a farne il
simbolo dello sguardo di un’epoca, quella del capitalismo agonizzante.
L’Altrella si cala nello sguardo della mosca, che non si sofferma sull’oggetto
specifico, ma osserva tutto il quadro dello spazio attorno a sé, distingue
piccoli oggetti ma non i grandi, percepisce gli ultravioletti ma non vede al
buio; tutto questo per identificare immediatamente il pericolo circostante in
movimento. La mosca è l’insetto più adatto per descrivere la natura morta
escrementizia.
È in questo darsi uno sguardo
lenticolare che L’Altrella scopre un modo nuovo di mescolarsi col mondo e di
segnare un sentiero mai tracciato prima per la pittura e per l’arte.