Rigoletto, regia di Antonio Albanese all'Arena di Verona. La recensione



Approcciarsi a una rappresentazione all'Arena di Verona è oramai trepidazione per il probabile arrivo della pioggia che può interrompere l'esecuzione e il pathos dello spettacolo. 

Ieri sera Rigoletto è cominciato sotto un cielo sereno coerente alle previsioni che annunciavano pioggia solo a partire dalla mezzanotte. 

Ma i due intervalli hanno fatto scoccare l'ora e quindi a quasi dieci minuti dalla fine alcune poche gocce hanno convinto l'organizzazione a interrompere la messa in scena. 

Fortunatamente si è ripreso dopo dieci minuti di stop e così Gilda ha potuto sacrificare se stessa salvando il Duca di Mantova dalla vendetta del padre. 

Il timore di una probabile pioggia si è unito all'atmosfera di presagio ombroso che attraversa l'opera verdiana. 

La maledizione lanciata da Monterone (Gianfranco Montresor) entra subito nei pensieri e nelle viscere del buffone e tutto proletticamente richiama il finale tragico. 

Nel primo atto è proprio la figlia di Rigoletto ad emergere con la personalità vocale dirompente della sua interprete Giulia Mazzola: un timbro pulito e potente come sono i sentimenti puri del personaggio. 

Juan Diego Flórez è il Duca di Mantova: quasi spento nel primo atto, si riprende ottimamente nella seconda e terza parte e il pubblico lo acclama. 

Rigoletto, interpretato da Luca Salsi, splende nei duetti con la figlia (concesso il bis), con il killer assoldato Sparafucile (il bravo Gianluca Buratto), con gli uomini (e l'ottimo coro) che gli rapiscono Gilda... 

La regia di Antonio Albanese aiuta il pubblico a seguire gli eventi personali e collettivi che sul palco prendono vita. 

La direzione dirompente eppure rispettosa del Maestro rende facile l'immedesimazione nei sentimenti che fanno capo ai tre grandi protagonisti: la preoccupazione e le ansie paterne, l'ingenuità e l'onestà della figlia, la sfrontatezza del seduttore. 

Una serata proprio bella che la scenografia di Juan Guillermo Nova, gli splendidi costumi di Valeria Donata Bettella, le luci di Paolo Mazzon e le coreografie di Luc Bouy hanno ulteriormente arricchito.

Sull'ambientazione riportiamo le parole del regista: «Ci siamo orientati verso gli anni Cinquanta: un periodo ancora drammatico, precedente il boom economico. Le ferite della guerra sanguinavano ancora, in molte zone del paese, poverissime, si moriva di fame, di pellagra o di colera. E abbiamo optato per un paesaggio padano, malsano e stagnante, lo stesso che si ritrova in tanti film neorealisti, che hanno saputo documentare vividamente le atmosfere e le contraddizioni dell’immediato dopoguerra. Ecco perché in questo Rigoletto abbiamo avvertito l’esigenza di sviluppare un discorso coerente con quelle suggestioni cinematografiche». 

Giovanni Zambito

Fattitaliani

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