Il treno della speranza di Gianvincenzo Cantàfora, un libro per non dimenticare il valore salvifico della memoria



Recensione di Stefania Romito

«Ricordare sempre per non dimenticare mai». Questo è il principio fondante di un libro che si testimonia nel valore del ricordo.

Il treno della speranza, Gli internati Militari Italiani tornano a casa di Gianvincenzo Cantàfora, edito da Tab Edizioni, commuove in un delicato sentire che non è rassegnazione bensì desiderio di restituire dignità e consapevolezza a una rappresentanza del popolo italiano sovente ignorata dalle pagine strappate di una storia violata.

Gli “IMI”, i militari italiani catturati e deportati nei territori della Germania nei giorni successivi alla proclamazione dell’armistizio, sono i protagonisti del libro di Gianvincenzo Cantàfora. Figure storiche che rinvengono in Gigi Mortola (Capo di terza classe della Regia Nave posamine Crotone) e in Bruno Trevisan (Caporal Maggiore del 5° Reggimento artiglieria da montagna del Regio Esercito), due personaggi simbolo nati dalla penna dell’autore all’interno di un intreccio dalla forte valenza empatica. Due personalità rappresentative che si legano al tema del viaggio e al senso della speranza.

Un treno ideale si unisce a quello storico che dal passato viaggia in direzione di un futuro destinato a essere oltraggiato. Il giorno della partenza è l’8 settembre 1943. Una data che avrebbe segnato l’inizio del caos e inaugurato uno dei periodi più bui per la storia del nostro Paese. L’Italia veniva lasciata al suo destino, priva di una guida politica e in balìa del nemico.

Il treno attraversa luoghi reali come il campo di prigionia “Stalag VIII” a sud dell’Austria, dove migliaia di IMI furono tenuti prigionieri, per poi approdare alle stazioni di un’Italia del primissimo dopoguerra incapace di riconoscere l’encomiabile valore degli IMI. Perché ciò che emerge con evidenza, in questo saggio-romanzo storico di Gianvincenzo Cantàfora, è proprio l’amor di Patria, il senso del dovere e di responsabilità che abitano il cuore e l’anima di quei militari italiani che l’armistizio aveva gettato nel limbo dell’oblio. Di fronte all’eventualità di associarsi ai tedeschi, o alla Repubblica Sociale, gli IMI preferirono rimanere fedeli all’esercito Regio. Scelsero quindi la prigionia, il lavoro in miniera, le percosse, la morte.

Il libro descrive con dovizia di particolari, frutto di accurate ricerche storiche da parte dell’autore, le condizioni di lavoro disumane e le continue vessazioni alle quali erano sottoposti i nostri militari. La narrazione di stile resocontista rinviene un efficace equilibrio tra descrizione del reale e racconto letterario con coinvolgente immersione nell’umanità dei personaggi. E sono proprio i sentimenti dei protagonisti a trascinare il lettore nel mondo delle emozioni sommerse delineando un ritratto sconcertante di quello che è stato un tragico destino.

Uomini d’armi che scelte politiche scellerate hanno trasformato in facili prede. Uomini d’onore custodi di valori che hanno salvaguardato nonostante le percosse, i soprusi, le violenze…

Lo scenario che emerge da questo trascinante testo è quello di un’Italia incapace di prendersi cura di centinaia di migliaia di persone che avevano giurato fedeltà alla nostra bandiera, e che quando ha avuto l’opportunità di emendare all’errore, al loro rientro in Patria, ha preferito perseguire la strada dell’indifferenza o, peggio, della diffidenza.

«La memoria è uno strumento di difesa della democrazia», sostiene la prof.ssa Collacchioni nel saggio introduttivo. Un assunto che sta alla base di questo documento storico di grande rilevanza volto a “illuminare” le zone d’ombra di un vergognoso passato affinché la drammaticità della vicenda narrata possa rinvenire nella condivisione il suo immanente significato.

 
 

Fattitaliani

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