Cinema, Alfonso Perugini in "Mafia Mamma". L'intervista



di Laura Gorini

A me piace vedere il progetto cinematografico nella sua globalità a prescindere del ruolo artistico o tecnico che andrò a ricoprire.

Figura anche il bravo e italianissimo Alfonso Perugini nella pellicola dal respiro internazionale “Mafia Mamma”. Accanto a lui immense attrici come Toni Collette e Monica Bellucci. Ecco che cosa ci ha raccontato l'attore di questa sua incredibile esperienza.

Alfonso, la prima domanda può essere scontata ma i nostri lettori sono curiosi di saperlo, com'è stato lavorare a fianco di due star internazionali come Toni Collette e Monica Bellucci?

È stata forse l’esperienza più bella della mia vita professionale. Toni e Monica sono due ragazze molto simpatiche e affascinanti allo stesso tempo. Sono star internazionali e amatissime dal grande pubblico e questo certe volte può creare l’impressione della “distanza” fra la diva e tutti gli altri, ma sul set di “Mafia mamma” non è stato così. Quando le ho conosciute entrambe, nei due mesi di prove che hanno preceduto il film vero e proprio, ammetto che avevo un po’ di quella giusta riverenza e rispetto che si deve a chi ha fatto grandi film, ma sia Toni e Monica hanno immediatamente voluto smorzare ogni formalismo. Per esempio quando conobbi Monica durante una prova costumi io mi avvicinai presentandomi dicendo: “Buongiorno, Signora Bellucci, sono Alfonso Perugini” e lei subito: “Ciao! Ma chiamami Monica, siamo colleghi!” Lo stesso vale per Toni Collette che mi ha accolto con il suo contagioso sorriso e da lì è nata una bella e sincera amicizia.

Lavorare su un set internazionale è certamente complesso e affascinante, tu come ti sei preparato per affrontare tale impegno?

Vero. È affascinante e complesso allo stesso tempo. Ma devo dire la verità: la complessità è un fattore che via via svanisce quando il progetto possiede un’eccellente fase di pre-produzione. “Mafia mamma” ne è un esempio. Dalla fine di gennaio 2022, quando mi venne consegnata la sceneggiatura e per i successivi sei mesi, quando abbiamo finito le riprese, ho fatto semplicemente ciò che ogni professionista in questo campo dovrebbe fare: ragionare, vivere e pensare solo e solamente in funzione del film. Non è un vero e proprio “metodo” o “sistema”, non ne ho mai avuto uno (e per fortuna aggiungerei), piuttosto un modo di vivere che per me ha sempre funzionato. Facendo così, il carico di tensione si tiene a bada nel corso del tempo e si arriva ben preparati a svolgere il lavoro

Con quali parole descriveresti il tuo personaggio?

Dante è un ragazzone po’ goffo ma non sciocco, a suo modo simpatico e divertente e certamente molto kitsch nel suo modo di vestirsi.

È stato amore a prima vista o è arrivato dopo?

È stato un autentico colpo di fulmine perché non appena ho letto la sceneggiatura mi sono detto: “Ma questo tizio sono io in chiave gangster!”. Da qui poi si vede anche la bravura di Michael J. Feldman e di Debbie Jhoon che hanno dato la massima resa all’idea originale di Amanda Sthers.

Che cosa ti ha conquistato subitaneamente di lui?

Paradossalmente i momenti passivi e silenziosi, che sono quelli che gli attori di solito non amano. Il mio “Dante” nel film si fa notare spesso e volentieri per le sue azioni che per le battute. Momenti che la nostra regista, Catherine Hardwicke, ha saputo valorizzare in maniera eccellente nel montaggio ben ritmato di Waldemar Centeno.

Per che cosa e in che cosa credi che sia molto simile a te caratterialmente parlando? E per che cosa invece siete completamente agli antipodi?

Siamo entrambi molto silenziosi e diamo grandissimo valore all’amicizia e questo chi vedrà il film avrà modo di notarlo. Siamo invece molto diversi ovviamente per quanto riguarda la violenza. Lui è un eccellente pistolero con la sua Franchi-Llama 357 Magnum, ma io fuori dal set non oserei neanche sfiorare un’arma da fuoco. Sono molto più diplomatico di quanto possa sembrare.


Molti tuoi colleghi sostengono che sia stimolante interpretare sul Grande Schermo personaggi molto diversi dal proprio modo di essere. È stato anche forse questo uno dei motivi che ti ha spinto a diventare un attore?

Ad essere onesti io sono abbastanza indifferente su questo punto. A me piace vedere il progetto cinematografico nella sua globalità a prescindere del ruolo artistico o tecnico che andrò a ricoprire. Molto più semplicemente se ciò che mi viene presentato ha credibilità produttiva e realizzabilità lo faccio. Per quanto riguarda il divenire attore è stato quasi un caso. Durante i miei anni negli Stati Uniti alla New York Film Academy studiavo filmmaking e quando non ero io a dirigere i vari progetti i colleghi per varie ragioni o esigenze mi davano dei ruoli da attore. Sembrava quindi che funzionasse questa carriera parallela e poi tornato in Italia ho coltivato in maniera più seria anche il lato artistico oltre a quello tecnico. Penso sia servito perché un regista deve sapere mettersi nei panni dell’attore.

Quando hai capito che era questa la tua strada da percorrere professionalmente parlando?

Quando avevo 14 anni ho capito e deciso che avrei lavorato nel cinema. Tutti i miei studi scolastici, universitari, accademici e i miei sforzi lavorativi da allora si sono concentrati su questo unico obiettivo. Ho avuto la fortuna di avere sin dal primo istante la chiarezza di idee su cosa fare in futuro e di averla avuta al momento giusto. Sono passati 20 anni e adesso sono felice di aver realizzato questa vision, con l’obiettivo di mantenere qualitativamente alto il livello di ciò che faccio.

Quando è stato il momento in cui hai intuito che ce l'avevi fatta?

Non c’è stato un momento preciso. È stato un lento crescendo nel corso degli anni. Non sono ovviamente mancati i momenti bui e negativi, così come ci sono stati da parte mia degli errori che poi ho dovuto e saputo correggere; ma se riguardo al passato direi che nonostante tutto ne è valsa la pena.

Alfonso ieri, oggi e domani, com'è stato com'è oggi e come sarà?

Se vediamo Alfonso fino ai 23 anni notiamo una persona sempre impegnata, con la voglia di fare nello studio e nel lavoro. In quegli anni ero un’autentica macchina da guerra con un’energia che pareva infinita. Quello che vediamo tra i 23 e i 30 anni sono gli anni in cui Alfonso alle prese con i primi grandi progetti. I primi successi formativi e lavorativi negli Stati Uniti (film “New York”) ma al contempo le prime grandi delusioni e pago lo scotto di alcuni errori di valutazione. Poi torno in Italia e dirigo un paio di film indipendenti (“Enigma Finale” e “45 – Good Wine”) oltre a una mole smisurata di video pubblicitari e documentari. Compiuti i 30 anni vediamo la persona che è in me oggi. Sono più attento a me stesso e a quello che faccio e che voglio fare. Spero che il futuro sia come diceva la canzone di Frank Sinatra: “The best is yet to come” (Il meglio deve ancora arrivare).


Che cosa ti auguri per il tuo imminente futuro, sia professionale che umano?

A livello professionale mi auguro di fare nuovi film che piacciano al pubblico come “Mafia mamma”, trovando magari quella continuità artistica che viene apprezzata dalla critica cinematografica, specie in Italia. Sull’aspetto umano, la salute è la prima cosa. Se c’è quella si può fare tutto. Per il resto prendo la vita come viene e la affronto ogni giorno con serena razionalità. Non ho particolari desideri. Sembra brutto dirlo, ma mi ritengo già fortunatissimo per quello che ho e che faccio.
Foto: Bleecker Street

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