di Francesca Ghezzani
Piero d’Alfonso (Milano, 1941), architetto, insegnante, esperto di formazione e studioso di Scienze cognitive in ambito pedagogico, dopo la pubblicazione negli anni di vari saggi e del romanzo d’esordio La cecità del vicolo (La Rondine, 2018), è tornato in libreria con Tue membra (GM libri, 2022), e con Grigi - Enzo Nocera (1944-1993) (Robin, 2022).
Piero d’Alfonso, c’è un
fil rouge che, in qualche modo, lega le sue opere?
Non un filo solo. Un grappolo, più d’uno. Sono i concetti su cui nasce
il colloquio con la pagina scritta. Evidentemente ritornano perché sono i punti
fermi del fatale andare: bussole minuscole, lucciole direi cui è dato il
compito di rischiarare le pause tra l’una e l’altra parola. Ancoraggi del
sapere, del capire, dell’interrogare il mondo.
Alcuni fili, radi, sono persone vere, carne e ossa. Enzo fra tutti, il
cugino-fratello. Non personaggio ma partecipe del mondo comune; e si trova da
più parti, episodi: in Grigi, in Tue Membra – Enzo che mi parla della
morte, lui che ritrovo morto nel carbone di Piacenza. Ma val la pena leggerne l’epico
tragico evento e le tante nostalgie del ricordo.
Ancoraggi profondi sono i miei, anch’essi veri, stretti: nonni, madre, padre,
fratello. Vivì. Il Commendatore. I figli, gli amici: tutti in uno i proches di ricœuriana memoria. Quelli
che nell’introduzione chiamo «la città e le persone di qui». Instabili, incerti
nella mia immagine mentale. Stanno lì dalla loro parte ed entrano in scena come
i solisti del blues. Evocati dal racconto. Provocati dal dolore o dalla cura.
E la città: Milano, vera metafora dell’esistere. «Questo mio mondo che io
chiamo Milano», così dico: case, strade, palazzi, organizzazioni, aziende,
tariffe, orari, mestieri, ruoli, norme, che esistono all’esterno di noi solo in
quanto pensati, voluti, fatti da noi e preservati dentro. «Sorrisi e leggenda».
Certe presenze, non cose, se mai son modi dell’accadere. Anzitutto lo stesso accadere
come fondo dell’onda degli eventi, e poi l’avvicendarsi di questi e le
circostanze in cui l’accadere non ha coerenza ma avviene a caso. E le altre
circostanze che rispettano la logica del racconto. E gli avvenimenti si
intrecciano tra loro secondo i meccanismi delle eventualità che forse, e solo
forse, si attualizzano. Vedi Nina che
si sta per pubblicare e in cui la storia si fonda sul non riuscire ad accadere.
No, molti fili davvero.
Come la musica che con Traviata impregna di sé il mio primo romanzo pubblicato - La cecità del vicolo - e che là dentro, al tardivo senso di perdita provato da un figlio, porge le note della rabbia, del palpito e del rimpianto. O come l’Ave verum, ninnananna e canto funebre mozartiano in Tue membra.
O come la condizione dell’adolescenza, modalità e fondamento del concetto di passaggio da cui derivo le fantasie e i racconti di ciò che scrivo. Passaggio che in Tue membra si associa alla metamorfosi della crisalide in farfalla. Quando la trasformazione forse, e solo forse, si compie.
E i sentimenti connessi, che vanno dalla follia all’amore, alla violenza, alla premura. Alla compassione e al perdono.
Vede? Cose di tutti che il crogiuolo narrativo in cui irrompono mette in vibrazione. Come poesia. Come «sonagli. Poi neve di sonagli».
Nota un cambiamento stilistico tra il romanzo
d’esordio e la sua successiva produzione letteraria?
Racconti
e testi poetici ne ho sempre scritti e ora giungono finalmente a pubblicazione.
Uno dei primi è I ricami di Vetra,
fiaba secondo la tradizione classica di Perrault e Grimm.
Il
mio modo di scrivere contiene degli accorgimenti che considero originali: il dialogo
per esempio (in quella fiaba l’espediente del sibilo del vento rende possibile lo
scambio tra il re, che è solo per definizione, e Vetra, la fanciulla allevata
dalle fate). Dialogo che fa da contenitore degli eventi, portato nel racconto Zavattini fino all’estremo di un unico lungo
conversare, entro il quale si riferisce dell’incontro vero tra Pablo Picasso e
Cesare Zavattini a Roma e poi di un musical, a Broadway, che mette in scena
canti e balli tra le macerie di una città minacciata dalla guerra e dai cecchini
dei due eserciti.
Questo
per dire che in me alcuni elementi sono non solo connaturati all’impulso
sorgivo della narrazione, ma sono maturati con anni di riflessione e di studio
sulla processualità delle cose che accadono, sul loro fluire in eventi o
costrutti concreti. È da questa ricerca che scaturisce per esempio la
concezione di educazione tecnica che
dà impronta al mio primo romanzo, La
cecità del vicolo. Consiste nell’indicare la successione degli elementi e
delle persone che danno vita alla cosa: una porcellana, un gioiello, una
cerimonia, un pranzo. Raccontare vuol dire illuminare il processo della loro
costituzione.
Del
resto il racconto si fissa tardi nella mia storia personale, in particolare con
Tue membra: insieme di stanze della
memoria su cui si proiettano temi e luoghi della città.
Un cambiamento in ogni caso ci sarà stato dai primi racconti, graduale e per
salti. Certo ora mi rivolgo a considerazioni di rilievo differente, ma non
saprei distinguere quelli da questi ultimi anche per il fatto che tutti sono
stati nel tempo letti e ripresi; ancora oggi i pubblicati tendo a correggere
come fossero bozze. Dunque sono di adesso.
E
d’altronde un tratto che mi viene riconosciuto, anche nei concorsi o da qualche
esperto con cui sono entrato in contatto, è la cura della parola. Che voglio
sapiente. Qualcuno è arrivato a dire dei miei testi che sono da ascolto
piuttosto che da rapida lettura.
Ma l’insieme dei concetti che si depositano nel mio scritto sento mescolati tra
loro in un continuo narrativo che rende i singoli testi parti di un tutto che
alla fine si tiene unito.
In Tue membra dà vita a una doppia narrazione. Che cosa troviamo scorrere su due binari paralleli? Se dovesse descrivere quest’opera e le immagini che essa evoca, quali aggettivi userebbe?
L’interiore
è la bolla che ci gira intorno, il sentire, il dolore e il rimpianto. Il nido e
il Getsemani, termini dell’antinomia per eccellenza di questo scritto. Da una
parte il silenzio di Dio, dall’altra il riparo accogliente per i nati. Chiaro
il rimando all’Ave verum di Mozart.
E
poi gli altri. Ribot, la tromba d’aria, Vivi sdraiata sul letto e i suoi
gioielli, la piaga, la scrittrice che mangia troppe patatine, passeremo di lì,
e così via. La lettera sull’adolescenza. La catena che tira e riposare in pace.
Quanto
agli aggettivi, la cosa è più complicata perché io tendo a usarli non come
qualità riferite alle situazioni già presenti nella frase, ma come proiezioni della
stessa in atmosfere nuove ulteriori. Cioè non spiegano né illustrano ma
traspongono. Come caleidoscopi del concetto da mandare a strutturarsi al di là.
Così tendo a spanderne a profusione: gli aggettivi, diciamo così, sono chiavi
che per incanto aprano porte e stanze diverse a seconda dell’uso.
Dunque prevalgono le immagini, e gli attributi devono servire alla loro uscita dal vincolo di fissità perché diventino altro. Ciò premesso, di immagini evocate lungo l’opera ce ne sono molteplici. Una è la fretta e gli aggettivi associati sono: dispotica muta, cioè silente, noncurante opaca; un’altra immagine è il dolore: penetrante prometeico inarrestabile reciproco e poi i tanti participi, anche loro attributi: inferto subìto tenuto con sé. Anche l’immagine del passaggio ha aperto un suo speciale orizzonte e gli aggettivi sono stati via via: stretto incerto incantato discontinuo feroce disperato folle luminoso. La crisalide poi si rivela impudica metamorfica chiusa iniziatica dolente.
Di tutt’altra natura è Grigi, titolo che evoca le molteplici sfumature del bianco e nero. Come nasce l’idea di scrivere di Enzo Nocera?
Per, con e su Enzo ho scritto sempre. Era mio primo cugino, da piccoli ci frequentavamo compatibilmente con i lacci e lacciuoli della città. Ci siamo poi persi al tempo del beat per il suo straordinario desiderio di evadere dal gorgo della routine. Mi sia permesso qui di trascrivere alcune mie parole, che prelevo da Tue membra:
«Tu da bambino ci sei [...] poi la vita ci divide. Un giorno che non si
aspetta irrompe una situazione, un problema e a risolverlo sei proprio tu che
ho conosciuto anni fa. Ma non sei lo stesso. La vita ti ha cambiato, sei stato
via, quell’altrove hai vissuto che io non so. [...] Altri incontri ci hanno
segnato di memorie e di consapevolezza. I nostri fili, ciascuno alla sua volta,
da sommersi a un punto, vengono in luce per qualcuno e si immergono nella
dimenticanza per qualcun altro, intanto che noi passiamo da un racconto e ne inseguiamo
uno nuovo. Ci perdiamo e ci troviamo non sempre con altri, assai spesso con
quelli di un tempo. Che non erano con noi per un po’. Così stringiamo i nostri
fili intrecciandoli e pressando il passato, il passare e il passaggio, con
testi che non altro sono che vivere. Avere vissuto, stare per vivere. E il
sapere di qualcuno non completamente sconosciuto ci rassicura e ci accoglie.
Sai, ho visto [...]. Quando? L’altro giorno. L’ho chiamato per la mia ricerca.
Com’è? Non è cambiato per niente, arruffato.»
Tra Enzo e me è stato sempre così. Proprio come qui è scritto. Poi
quando è tornato a Milano in via Brera ci siamo ritrovati. Senza troppa fatica.
Agevolmente. Ci cercavamo spesso.
Ci siamo aiutati molto.
Molto!
Le presentazioni scritte ed esposte alle sue mostre erano mie così
come quelle sulle riviste e nelle pubblicazioni. In occasione della personale
di Palazzo Bagatti Valsecchi, la rassegna postuma dell’universo dei suoi
lavori, quegli scritti hanno trovato spazio raccolti tutti nel catalogo Electa
curato da Roberta Valtorta.
E così l’ho accompagnato fino al compianto funebre di Lambrate.
Come nasce l’idea di scrivere di Enzo? Neppure lo so. Forse è stato un giorno invernale davanti al Castelletto visconteo semidiroccato dalle mie parti, quando una luce emanata dal piovigginare notturno mi ha proiettato uno di quegli indachi grigi, un po’ tenuti insieme come d’acquerello, ricordandomi i tempi lontani del Castellazzo. Da qui i grigi, le nostre chiacchierate e le birre e le confidenze più segrete.
Gli scatti e la memoria:
che cosa lascia, secondo lei, Enzo Nocera alle future generazioni? In chiusura,
ci sono altri suoi progetti editoriali in attesa di una pubblicazione?
Cosa lascia.
Banale: le foto.
Il Castellazzo su tutte.
La sapienza di un grande ritrattista. E di un eccelso stampatore.
Tranne alcune inedite che gelosamente conservo e che si offrono alla
visione di chiunque ne faccia domanda, sono tutte raccolte nel Fondo Nocera
presso il MuFoCo (Museo di Fotografia Contemporanea) di Cinisello Balsamo.
E lascia i suoi ineguagliabili fondali, che ancora modulano gli sfondi
di tante immagini fotografiche di altri.
E la determinazione incrollabile a restare l’uomo di Brera della sua origine,
della sua visione, del suo destino.
La memoria di un “santo bevitore”.
La compagnia di un fratello.
Altri progetti: sì, tanti, che passo passo arrivano a concludersi
sul piano della scrittura e si avviano a pubblicazione. Intanto il racconto Nina con cui siamo alla firma con un
editore. E ancora le circa venti narrazioni raccolte in parti: una prima più
biografica già presentata al Premio nazionale Italo Calvino dal titolo Nonno Ernesto e altri racconti, una
seconda parte di piena finzione cui ho dato il titolo Fantasia e altri racconti e una infine che ho intitolato Dimore in cui tratteggio dei luoghi di
insolita ospitalità.
Ho inoltre presentato lo scorso anno, sempre al Premio Italo
Calvino, un breve scritto dal titolo Tre
alberi e ne ho tratto un giudizio senz’altro lusinghiero.