Come rami è il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Massimo Zona, titolo-metafora che dispiega il tempo che avanza, gli anni che si ammucchiano come cataste di legna, i ricordi-rimorsi e i ricordi forse rimpianti: «in cui più chiaro appare / che il non fatto è dipeso, /soltanto, /dalla nostra mancanza di coraggio». Così scrive il poeta negli ultimi versi di Scende la sera.
E allora avanza
l’inchiostro del poeta esplorando tutti i registri possibili, dall’italiano al
romanesco, mentre s’inerpica il dettato di Massimo Zona tra le nebbie, terreni,
casolari e fabbricati e chiese. È il paesaggio-sorgente, come recita la poesia:
«a tracimar tra i sassi / e tra la ghiaia, / senza annegarvi dentro /affiorano
così le mie paure».
Ed è ancora la poesia che
reclama salvezza, il sublime che annienta lo sguardo dell’uomo, ma che non può,
non deve annegarvi dentro. Ed è un padre che parla a un figlio, ai figli, e
deve proseguire, perseverare, vivendo ed errando, nonostante tutto: «Quando
avrai la mia età e la mia /presunzione / di avere fatto tutto con la stessa /
intenzione, […] quando avrai la mia età sarai, spero, /più buono /di me, allor
felice di averti fatto Uomo».
Nella chiusa, l’augurio
di esser più buoni, di quanto l’umanità - l’Uomo con la lettera maiuscola - sia
riuscita a fare finora, è il vero manifesto della poesia; l’universalità che
contraddistingue ogni uomo e ogni donna: «in quel niente mi dà di più /il senso
della vita /e del passato /quando inciampo / talvolta / nell’ombra che son
stato».
E ognuno rammenta com’era
un tempo e invoca: «Ricordami com’ero /nel tempo
andato, /e aiutami a restare quello di allora / pieno di vita e di speranza, /
di rabbia insaziabile di dire / e di fiducia cieca / nel divenire». Splendida
cresce la poesia in Avanza il tempo:
Avanza
il tempo ad ammantare il cuore
col
suo passo pesante e cadenzato,
lasciando
indietro e anni e mesi e ore
come
secche le foglie sul selciato.
Torna
alla mente come l’hai sprecato
dietro
quel sogno che non era amore
o
in un progetto quasi realizzato
del
quale non sentisti mai il sapore.
Gridano
al sole nel giardino i fiori
e
le galline in festa con il gallo
e
spande attorno il rosmarino odori
mentre
la noce sta indurendo il mallo.
La
compagna del merlo sta già fuori,
lui
l’accarezza col suo bello giallo.
Chi ora dovesse
ricercarne le fonti, le fonti che hanno ispirato il poeta, i maestri dai quali
ha imparato, la lingua aulica, e la metrica, le due quartine e terzine che
compongono il sonetto Avanza il tempo, spreca il suo tempo. Sì, spreca
il suo tempo. Perché se vogliamo scomodare D’Annunzio che, a proposito del
sonetto, lo riteneva tra le massime espressioni di un componimento letterario: nelle
due quartine ci sono le premesse che si fanno promesse, e nelle due terzine
l’esplosione di una conclusione che non deve deludere le due premesse, ecco che
le due terzine in Avanza il tempo diventano le promesse mantenute, esaudite,
la vita che continua, alla maniera quasi di un sillogismo, sebbene più lungo. Ma, il poeta, al di là delle fonti, e della più
bella tradizione letteraria, somiglia solo a sé stesso, e alle sue sorgenti
d’acqua. Nei paesaggi di Massimo Zona, nei suoi corsi d’acqua, si inseriscono i
figli, la moglie, la madre, il padre, il nonno, la nonna, e gli amici. Nei cari
di chi sa fare poesia si può rimirare chiunque, vibrano le corde di tutta
l’umanità, di chi è figlio, fratello, sorella, padre, madre, nonno, nonna, amico.
Chiunque legge s’identifica nel dettato di un buon poeta, di una bella poesia,
bella perché la poesia conduce alla bellezza, ancor più se umile e modesta, ma,
traboccante di sentimento, di pietas e vero e puro coinvolgimento
nell’esser tutti inseriti dentro un mondo che non è mai stato facile
comprendere.
Ed è allora che, interviene
il dialetto, per meglio comprenderci - il dialetto è la lingua del cuore - e,
in questo caso, il romanesco. Qui il poeta raggiunge il “picco del vivere”,
espressione di una definizione tanto amata da Zanzotto che, del dialetto, ne
fece il suo fiore all’occhiello.
Ma, ancora, se è bene
richiamare i grandi maestri, Massimo Zona, da solo, fa del suo romanesco il
passaporto per andare avanti. Il dialetto romanesco qui diventa da “suo”, l’insegnamento
di una lingua madre, una vera e propria saggezza, il risultato di un viaggio
esistenziale che può ripartire solo nel monito di un padre che mette alla prova
un figlio nei versi de Le cose che se ‘mpareno da pprima:
Buttate, disse, che te
pijo io;
io nicchiavo ‘n pochetto
pe ‘ a paura
d’anna’ pe’ tera; / ma
preganno Ddio
chiudenno l’occhi annai
pe’ l’avventura.
‘Nun te devi fidà, fijolo mio,
si ppoi nun voi scopri’
la vita dura!!”
E ancora m’aricordo,
miseriaccia,
perché, parlanno, ritirava ‘e braccia.
Katia Olivieri
(Poetessa, scrittrice e giornalista)