di Mira Carpineta
La crisi dei sindacati è manifesta. Il declino delle
organizzazioni nate per tutelare i diritti dei lavoratori, è drammaticamente evidente.
Le due principali organizzazioni sindacali (ma nell’insieme, tutta la triplice
) hanno fatto registrare, solo dal 2000 al 2017, una perdita che supera i
300.000 iscritti.* La CGIL è il sindacato che ha avuto il calo maggiore, ma “la
fuga” delle deleghe è importante anche per la CISL. Una curva la cui discesa non si arresta e che
coinvolge tutte le sigle in un vero e proprio crollo, che nel suo ammontare
complessivo riguardante il dato unitario CGIL CISL E UIL, ha portato alla
perdita di oltre mezzo milione di tesserati.
Vale la pena interrogarsi sulle cause di tanta disaffezione.
Certo la crisi ha radici profonde, arriva dagli anni 80 e da una concertazione
politica basata soprattutto sulla contrattazione reddituale e relazioni
industriali volte a disarmare il dissenso, lo scontro, la critica, la “lotta”. La
concertazione sembrava la soluzione ideale per evitare il rapporto conflittuale
tra sindacati e governo, attraverso consultazioni preventive con le parti
sociali, prima di operare scelte economiche.
Lavoro, salari, previdenza sociale, politiche fiscali,
finanza pubblica e politiche economiche, tutto avveniva attraverso la pratica
della concertazione.
Per i sindacati inizia così un periodo di corresponsabilità
in tutte queste scelte, dove il ruolo della critica o dell’opposizione deve per
forza essere calmierato per poter partecipare ai tavoli di contrattazione. Diminuiscono
gli ambiti e le modalità di intervento. Si ritrovano così a presidiare un
territorio sempre più limitato, grazie anche a scelte opinabili come le
limitazioni agli scioperi. Il sindacato si trova, a mano a mano, confinato alla
“fabbrica”, alla conservazione dei posti già tutelati e dei diritti già
acquisiti, come le pensioni. L’azione sindacale si ingabbia sempre più in una
“coltivazione di orticello” dai confini sempre più ristretti. Si gioca in
difesa, nella convinzione che “difendere il fortino” sia l’unica
imprescindibile priorità.
Nel frattempo però, è esplosa la globalizzazione, la rete, il mondo si è ritrovato tutto insieme e contemporaneamente nello stesso luogo, anche se virtuale. E in questo nuovo luogo sono nati, grazie alla tecnologia, nuovi modelli di lavoro, di impresa, di attività, di necessità, di opportunità.
I sindacati invece sono rimasti fermi, a guardare un mondo
cambiare vorticosamente, a presidiare i cancelli delle ultime fabbriche
sopravvissute alla crisi economica del 2009. A mantenere posizioni che in fondo
hanno esaurito il loro ruolo in questo nuovo contesto sociale. I paradigmi su
cui poggiava tutta la concertazione del ‘900 sono velocemente stati superati da
una realtà che non avendo precedenti ha disorientato non solo i sindacati ma
l’intero apparato sociale.
Ad aggravare la situazione, i due anni di pandemia che per
necessità si è trovato a spingere fortemente l’acceleratore sulla transizione
al digitale di tutto ciò che può essere digitabile. Dalla scuola alla PA alle
imprese pubbliche e private, tutti hanno dovuto attrezzare in pochissimo tempo
una tecnologia che consentisse il proseguimento delle attività e delle
produzioni anche in lockdown.
Questo, se da un lato ha consentito il salto quantico
necessario all’avvento della nuova era e l’evoluzione della società da un punto
di vista tecnologico, dall’altra ha lasciato una classe dirigente,
amministratori e decisori pubblici, non
propriamente “nativi digitali”, spiazzata e inadeguata a gestire la mutazione.
Sono nate categorie di lavoratori e mestieri che non
esistevano fino a 3 anni fa, oppure non
rappresentavano una platea così vasta. Il cosiddetto smart working o lavoro
agile, gli orari flessibili, la rete internet che prepotentemente prende in
mano la gestione del mondo del lavoro e delle prestazioni fuori dagli schemi e
dagli strumenti abituali.
Questo è un modo di lavorare difficilmente comprensibile per una generazione che ha impostato la vita sociale di intere nazioni sulla mobilità per raggiungere fabbriche o uffici. Talmente difficile da capire che non riesce a chiedere (ma neanche a riconoscere quali siano) nuovi diritti e nuove tutele per chi invece , obtorto collo, è stato costretto ad adeguarvisi. La scuola, la PA, i trasporti, le aziende, per non essere travolti dallo tsunami della pandemia hanno dovuto attingere a tutte le opportunità delle nuove tecnologie, ma il nuovo ambiente non ha regole ed è quindi impossibile (al momento) definirne limiti e abusi o sfruttamenti.
I sindacati, in cui la componente generazionale è
determinante vista la scarsissima partecipazione dei giovani, si sono ritirati
“sull’Aventino”, a presidiare gli ultimi territori: pensioni e fabbriche. Due
luoghi destinati inevitabilmente a profonde trasformazioni e non troppo lontane.
Faticano a riconoscere e capire le nuove competenze, le nuove esigenze, sia del
mondo datoriale che di quello operativo. CGIL, CISL e UIL hanno così perso i
loro riferimenti di sicurezza, il senso del loro ruolo.
L’emorragia di iscritti deriva da questo. Le nuove
generazione che soffrono la mancanza di una seria politica attiva non hanno
nessuna fiducia in un istituto culturalmente lontano dalla loro realtà. In questi anni la generazione dei giovani è
stata praticamente ignorata dalle scelte governative, dalle politiche attive.
Nonostante le retoriche denunce sulle fughe dei cervelli, sui giovani
globetrotter che seguono il lavoro in ogni posto del mondo, la questione
giovani rimane IL nodo irrisolto dell’azione sindacale.
Arroccati su pensioni e lavoratori dipendenti – soprattutto
di grandi aziende- dopo aver contribuito all’approvazione di leggi lavoricide
come la famigerata “Fornero”, con un’idea dell’Europa cancellata dal recente
colpo di spugna della guerra in Ucraina, i sindacati sono di fronte a un bivio.
L’estinzione è inevitabile per la specie che non trova
adattamento al nuovo contesto – sosteneva Darwin -e per fermare la fuga degli
iscritti e ritrovare il ruolo che gli compete, occorre adeguarsi, adattare il
sindacato ai nuovi lavori, alle nuove realtà, alle nuove necessità, prima fra
tutte i criteri di valutazione dei quesiti e delle competenze.
Quindi cambiare si può, anzi si dovrà, per forza di cose, ma
occorre rivedere i ruoli di una istituzione che rappresenta il grado di civiltà
di un Paese e il baluardo alle derive restauratrici o revisioniste della storia
e del lavoro. Ogni sfida deve perseguire obiettivi e risultati, ma per ottenere
il cambiamento occorre, semplicemente e banalmente, cambiare: addendi,
paradigmi, modalità, principi, altrimenti, come diceva Einstein il risultato
sarà sempre lo stesso.
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Fonte dati: Pietro Ichino