Parte del ricavato dalla vendita del libro destinata a realizzare e sostenere laboratori solidali di scrittura - di Francesca Lippi.
“Al tempo
dell’oscurità del cuore e dell’anima, percorrevano i contadini silenziosi,
lunghi e contorti nastri di strada cui un tramonto precoce, per via dei monti,
che oscurano il sole quasi repentinamente, riconduceva a casa come pecore verso
l’ovile…
”Comincia così il romanzo. Un
romanzo dall’afflato corale, ricco di storia e di intrighi elargiti a piene
mani dai potenti di Badolato, paese della Calabria protagonista con
la sua gente di una storia realmente accaduta. Narrato con un incedere antico,
il plot si snoda tra riti e tradizioni, frasi in dialetto – ma tradotte in
italiano-e congiure subite da due giovani che si amano, osteggiati
all’inverosimile nel loro amore, poiché non appartengono allo stesso ceto
sociale. I due innamorati dovranno lottare per far riconoscere al mondo la loro
unione e subiranno angherie e vessazioni di ogni genere.
Nel racconto le
emozioni si rincorrono struggenti seppure trattenute, come fossero peccaminose,
ché quella gente di Badolato mostra di non poter “mostrare” e se lo fa è sempre
con ritegno, ché le emozioni son da tenere per sé, racchiuse nello scrigno di
un’anima di cui, forse, si è persa la chiave. Lo sguardo dell’autrice si cala,
da esperta conoscitrice di quei luoghi, nella storia ancestrale di un popolo
soggiogato, da poco unito al Regno d’Italia, ma che ancora non parla la lingua
ufficiale del nuovo stato, offrendo un’indagine storico-sociale netta e
dolente, soffermandosi sulla miseria e l’asservimento degli ultimi: contadini,
braccianti, pastori, un popolo minuto che ancora deve scrollarsi di dosso
l’ignoranza, il senso di inadeguatezza, la superstizione e su cui fra tutti
primeggia, quale spada di Damocle, la differenza di censo, tagliando in due
senza alcuna incertezza, la parte nel quale “U Distìnu” ha
collocato quelle vite senza alcuna possibilità di scelta e di scampo.
Lo sguardo si
sofferma poi, e con forza quale punto centrale del romanzo, sulla condizione
femminile e minorile, e qui il lettore scopre la violenza dei padroni sulle
donne, anche bambine, alternata a quella dei padri sui figli tutti, in una
miscellanea che poco lascia all’immaginazione e che stringe le maglie di un
dolore soffocato al quale, unica via di salvezza, resta la strada di
una sofferta ribellione che sfida l’ipocrisia e la vendetta anche a costo
della vita. Un indubbio merito del romanzo della Leuzzi è l’aver scandagliato
con estrema attenzione le usanze tipiche di un paese del sud Italia subito dopo
l’unificazione, caratterizzandone con peculiarità i tratti dei personaggi e
dando risalto all’emarginazione subita da quelli che non si adeguano ai
comportamenti sociali imposti dal costume di quel tempo.
Saranno il
candore di una bimba che insiste “Dai Ce’ on ci penzàra, cùntami, cùntami”
all’inizio del romanzo che farà da trait d’union nella storia e uno strano cane
randagio bianco che la chiude, ad offrire la catarsi a quella gente: donne e
uomini, anziani e bambini, poveri e potenti saranno riuniti senza alcuna
distinzione, almeno per una volta, nell’ascolto di una richiesta infantile e in
quello di un ululato dolente che “durò tre giorni, e fioco che fu si chetò,
ma da lì non si mosse“.
Vittoria Leuzzi nasce a Badolato Marina
(CZ) nel 1966. Frequenta l’istituto magistrale di Catanzaro Lido e dopo il
diploma si trasferisce a Firenze, dove frequenta la facoltà di Magistero. Si
laurea in Pedagogia e si specializza in seguito nella scuola polivalente per le
attività di sostegno. Attualmente insegna nella scuola primaria di Borgo San Lorenzo
(Firenze), dove vive con la sua famiglia. Nel 2011 pubblica la sua prima opera
dal titolo “Il cancello delle buganvillee” edita da Albatros.