Una grave perdita per l’Abruzzo la scomparsa dello storico e intellettuale peligno, amante della Libertà - di Goffredo Palmerini.
L’AQUILA - Quasi una
settimana di rispettoso silenzio per elaborare la commozione e meditare. Solo
ora riesco ad esprimere qualche riflessione in ricordo di Mario Setta, scomparso il 25 marzo scorso a Sulmona, in ospedale, dov’era stato ricoverato per un intervento
chirurgico. Un tempo di attesa necessario per riordinare i pensieri,
scompigliati dal dolore per l’inattesa perdita di un amico vero, che consideravo
come un fratello maggiore, sebbene nella rarità degli incontri e tuttavia nella
frequenza delle nostre corrispondenze. Nella sua mitezza, nel rigore morale,
nella sua franchezza e nella ricchezza interiore, che sfociava in una cultura
rilevante e mai sussiegosa, ho trovato per anni rifugio e motivo di confronto. Ne
ho stimato l’apertura al dialogo e la fecondità di grandi valori universali,
che Mario declinava con la semplicità del suo tratto, con la sua modestia e il
suo garbo, con la chiarezza evangelica del “sì sì, no no” senza indulgere a
compromessi. Sabato, l’indomani della morte, un commosso omaggio civile hanno
portato all’amico Mario le tante persone che l’hanno stimato ed amato. Davanti
la casa funeraria dov’era custodita senza pompe la sua bara, coperta da un
cuscino di fiori e con dinanzi poggiata una semplice croce di legno, Maria Rosaria La Morgia, presidente
dell’associazione culturale “Il Sentiero
della Libertà” lo ha commemorato, sottolineando il forte impegno sociale e
culturale che Mario Setta ha con grande
passione civile dedicato per tenere vivi e intatti i valori della Resistenza,
della libertà e della democrazia.
“È
da ieri, da che ho saputo che te ne eri andato – ha detto tra l’altro M. Rosaria La Morgia - non
faccio che pensare a una data che avevi in mente e che avresti voluto ricordare
per parlare di Sulmona, dell’Abruzzo e della sua gente, per parlare di
Resistenza Umanitaria e di libertà, alla vigilia di questa nuova edizione del Sentiero
della Libertà. La data è il 24 marzo, o
meglio il 24 e il 25 marzo: il tempo della traversata della Maiella raccontato
da Ciampi nel suo diario, quello che regalò a te e al gruppo di insegnanti e
studenti del laboratorio di storia del Liceo Fermi alla fine degli anni ‘90. E,
strana coincidenza, te ne sei andato proprio il 25 marzo. Fosti tu con le tue
ricerche e la tua tenacia a riportare alla luce tante storie di aiuto, di
solidarietà, di libertà e di scelta.
Storie di donne e uomini semplici, che non ebbero paura di mettersi in
gioco. E tu come loro, le scelte per la libertà le hai sempre fatte,
rimettendoci e senza mai lamentarti. Sempre con l’entusiasmo e il sorriso di
uomo buono, generoso, quale sei sempre stato. Hai regalato sapere e anche gioia,
voglia di vivere, di andare avanti, di mettersi in cammino a chi ti è stato
vicino. Durante il Sentiero della Libertà apparivi e scomparivi, ti confondevi
tra i marciatori, rispondevi a chi ti faceva domande, parlavi a chi restando in
silenzio ti interrogava con gli occhi. Raccontavi, narravi le “nostre” storie
come le chiamavi e come facevi anche nelle aule scolastiche. Ti piaceva stare
con i ragazzi e riuscivi sempre a coinvolgerli, a incuriosirli. Il Sentiero
della Libertà ti appartiene, nel profondo. Quelle parole del presidente Ciampi,
scritte su uno striscione, sono le tue parole, le nostre parole. La libertà è
un’idea in cammino, lo dicevi e lo ripetevi. Come amavi ripetere un’altra
frase: resistere è un verbo che si coniuga sempre al presente. E noi
continueremo a camminare con te, a resistere e ad amare la libertà”.
Il feretro, con accanto
la signora Franca Del Monaco, compagna
premurosa ed amorevole di Mario, ha quindi mosso verso Fonte d’Amore, al Campo 78,
luogo di detenzione dei prigionieri Alleati da dove, dopo l’8 settembre 1943, essi
intrapresero il cammino verso la libertà, ricongiungendosi alle truppe Alleate,
accompagnati dai volontari della Resistenza
umanitaria tra le asperità della Maiella e oltre la linea Gustav, lungo
quello che sarebbe diventato “Il
Sentiero della Libertà” da Sulmona
a Casoli. Per oltre quindici anni Mario Setta ha tenacemente lottato
contro ostacoli d’ogni sorta e indolenze, per valorizzare e restaurare quei
luoghi di sofferenza, perché diventassero un presidio della memoria,
soprattutto per i giovani, perché quel campo diventasse per tutti luogo di
conoscenza della nostra storia, segnata dalla Resistenza al nazifascismo, anche
nella forma “umanitaria” così fortemente presente nel territorio peligno e in
Abruzzo. Carlo Fonzi, presidente
dell’Istituto abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia
contemporanea, ha tenuto l’orazione funebre.
“Poche parole
per ricordare un grande uomo. Prima di tutto – ha
detto nel suo intervento il presidente
Fonzi – desidero esprimere, a nome
mio e dello IASRIC, la nostra vicinanza e la nostra sentita partecipazione al
dolore di Franca, dei parenti e dei tanti cari amici di Mario, tra i quali ho
l’onore di essere anch’io. Mario era davvero un amico. Ci eravamo visti lo
scorso 8 novembre nella sala ipogea del Consiglio Regionale a L’Aquila, per il
rinnovo del Comitato direttivo dell’Istituto Abruzzese per la Storia della
Resistenza e dell’Italia Contemporanea, di cui era socio. La nostra era
un’amicizia fatta di valori condivisi, di “schiettezza e concretezza”, che erano
poi i suoi modi di affrontare qualunque questione, con tenacia, molte volte
anche con testardaggine, pronto a difendere le proprie idee, ma sempre
disponibile al confronto. Era venuto a conoscermi nel settembre 2005 al Liceo
Fermi di Sulmona, qualche giorno dopo il mio arrivo come dirigente scolastico,
per parlarmi della sua ricerca storica sui prigionieri del Campo 78 di Fonte
d’Amore, avviata con i suoi alunni liceali prima del suo pensionamento, e della
scoperta dei diari di Carlo Azeglio Ciampi, in cui raccontava la sua fuga da
Scanno, dove si era rifugiato dopo l’armistizio, a Sulmona e, quindi, verso
Casoli per raggiungere le Forze alleate che risalivano la nostra penisola per
liberarla dall’invasione tedesca. Ne ebbi un’impressione estremamente positiva,
tanto che credo di avergli detto che ero dispiaciuto di non poterlo avere tra i
miei docenti.
Da questa sua
esperienza didattica, condivisa con altri colleghi del Fermi, è nato “Il
Sentiero della Libertà”, marcia internazionale che ogni anno, dalla prima
edizione del 2000 inaugurata da Carlo Azeglio Ciampi appena eletto Presidente
della Repubblica, porta centinaia di alunni, docenti e persone a ripercorre
questo cammino, da Sulmona a Campo di Giove, alla Maiella con il Guado di
Coccia, a Taranta Peligna sino a Casoli, dove è nata la Brigata Maiella. Questa
è la grande eredità – ha
aggiunto Fonzi – che Mario lascia a Sulmona, alle comunità
peligna e teatina, a tutti noi. Da questa idea sono nate l’associazione Freedom
Trail - Il Sentiero della Libertà, che Mario ha coordinato per tantissimi anni,
e le tante ed importanti pubblicazioni tra cui, anche per il valore evocativo
del titolo, è opportuno citare “E si divisero il pane che non c’era”, in cui si
parla, forse portandola per la prima volta all’attenzione degli storici
nazionali, di quella che oggi è definita la “Resistenza umanitaria”, che si
affianca a quella della bande partigiane e che ha contribuito in modo
altrettanto rilevante a liberare l’Italia. Ancora molto altro si può dire di
Mario. Era un uomo coerente, libero, non etichettabile - proprio perché mai
“ingabbiato” dai “sistemi”, anche forti, incontrati nella sua vita - e sempre
disponibile con gli altri. È stato un bravo educatore, un docente preparato e,
soprattutto, uno storico attento ed un grande scrittore. La scrittura era una
sua dote, una sua passione che metteva a disposizione di tutti E spesso abbiamo
utilizzato questa sua bravura. Anzi era lui che si proponeva, comprendendo
magari gli impegni degli altri, “tanto sono in pensione” diceva. Ciao Mario, ti
vogliamo bene.”
Una vita movimentata e straordinaria,
quella di Mario Setta. Era nato a Bussi sul Tirino (Pescara) il 19
novembre 1936. Aveva frequentato il Liceo e gli studi di Teologia a Bologna. Nel 1962, ordinato sacerdote,
andò a svolgere attività pastorale a Roma,
prete operaio tra gli operai, con i quali condivideva condizioni di vita, le
ansie, i sacrifici, ma anche la profonda umanità delle classi umili. Fu un
tempo ricco di esperienze e di conoscenza delle tematiche del lavoro, ma anche
di impegno nella formazione che egli apprestava seguendo l’illuminante metodo
didattico che don Lorenzo Milani
aveva applicato alla scuola di Barbiana. Testimonianza coinvolgente di quel
periodo di vita di Mario la si può trovare nel suo libro “Cristo ha le
mani sporche”. Tornato nella terra d’Abruzzo, nel 1970, Mario fu parroco a Badia, un piccolo borgo nei pressi di
Sulmona dov’è la splendida Abbazia celestiniana, a quel tempo adibita a
carcere. Radicale interprete dei mutamenti che il Concilio Vaticano II aveva postulato, entrò presto in collisione
con la gerarchia ecclesiastica quando decise di liberare i servizi sacramentali
dagli appannaggi, rendendoli senza compenso alcuno. Ma questo era forse
l’elemento più appariscente, ma non il principale. Perché oltre alle
contraddizioni che egli metteva in luce rispetto all’autenticità del messaggio
evangelico, ciò che più dava fastidio era la novità del suo approccio ai temi
sociali, alle condizioni di emarginazione che denunciava, la sua adesione alle
battaglie di emancipazione delle classi più umili, la lotta contro i privilegi,
in un tempo contrassegnato dal conformismo sociale e politico. Ancor più
destarono scandalo le sue posizioni rispetto a referendum sul divorzio e
sull’aborto, laddove sosteneva la laicità dello Stato e le prerogative del
Parlamento nella formazione delle leggi che, quando promulgate, da tutti
avrebbero dovuto essere rispettate, senza interferenze da parte delle gerarchie
della Chiesa. Che anzi egli richiamava all’autenticità della missione
evangelica, alla difesa degli ultimi e degli emarginati. Insomma, un prete
scomodo – insieme agli altri due sacerdoti peligni, Pasqualino Iannamorelli e Raffaele
Garofalo – che per questa ragione venne sospeso dall’azione pastorale, con
l’ultima Messa celebrata il 7 aprile 1979. Una situazione che non poteva
reggere e che qualche anno dopo tracimò nella sospensione “a divinis”, nel
1982, quando Mario Setta accettò la
candidatura come indipendente nella lista del Partito comunista al Comune di
Sulmona, dove fu consigliere comunale per una consiliatura. Tutte vicende
raccontate nel suo libro autobiografico “Il volto scoperto”.
Intanto, lasciato
l’abito talare, c’era necessità del lavoro per sostentare la sua vita. Mario si era laureato in Sociologia e
Filosofia, ma per poter concorrere all’insegnamento dovette attendere la
riforma del Concordato tra Stato e Chiesa, portata a conclusione dal Governo
Craxi nel 1984, per vedere rimossi i vincoli che glielo impedivano. Cosicché ha
potuto insegnare Storia e Filosofia agli studenti del Liceo scientifico “Enrico
Fermi” di Sulmona per molti anni, fino alla pensione. Là ha appassionato alla
storia intere generazioni di studenti, insegnando e operando con i suoi allievi
nella ricerca storica attraverso il Laboratorio di Storia, che egli dirigeva,
curando la pubblicazione di numerosi volumi, quali “E si divisero il pane che
non c’era, Il sentiero della libertà. Un
libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi” (Laterza, 2003) e delle
memorie tradotte di tanti ex prigionieri alleati del Campo 78 di Sulmona, come
“Spaghetti e filo spinato” di John Esmond Fox, “Fuga da Sulmona” di Donald
Jones, “La guerra in casa 1943-1944 –
La Resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano” di William Simpson, “Linea di
fuga 1943-1944” di Sam Derry, “Un pranzo di erbe” di John Verney. Nasceva inoltre la sua
creatura “Il Sentiero della Libertà” e l’omonima Associazione “Freedom Trail – Il Sentiero della Libertà”,
che ogni anno organizza in primavera la Marcia internazionale in tre giornate
da Sulmona a Casoli. Storie di donne e uomini nell’Abruzzo della seconda guerra
mondiale raccontate nel magnifico volume “Terra
di libertà ”a cura di Maria Rosaria
La Morgia e Mario Setta,
edizioni Tracce-Fondazione Pescarabruzzo (2014).
C’è
un altro episodio rocambolesco nella vita di Mario.
Gli capitò il 9 maggio 1974, con l’evasione dal carcere di Badia di Horst Fantazzini.
Fortunatamente finì senza spargimento di sangue. Lo raccontò Mario
stesso in un lungo articolo che mi affidò - come molti altri suoi scritti – e che
inviai ai miei contatti stampa in Italia e all’estero, con una grande
accoglienza. “9 maggio 1974, un
giorno memorabile. Non solo per me. È il giorno dell’evasione dal carcere di Sulmona
di Horst Fantazzini. Verso le dieci del mattino, come al solito, mi reco
all’Ufficio Postale per rilevare la posta. Ci sono alcune lettere di persone
che mi scrivono esprimendo dissenso e contrarietà alle mie e nostre posizioni
sul referendum per il divorzio. Qualcuna è alquanto offensiva e minatoria. Non
ci bado. Torno a casa. Mi preparo a scrivere a macchina i programmi delle
persone che devono sostenere gli esami di licenza media. Tra alcuni giorni
scade il tempo di presentazione delle domande e dei relativi programmi. Mi
metto a battere i tasti della macchina da scrivere. Comincio col programma di
Italiano. Non ho ancora finito la prima pagina che sento dei passi. Qualcuno
apre la porta della stanza che fa da biblioteca della casa parrocchiale. Ha in
mano una pistola. Resto impietrito. Pronuncio, o meglio cerco di balbettare
qualche parola: “Non mi ammazzare! La campagna elettorale è ormai finita. Non faccio
del male a nessuno se sostengo il NO al referendum”. Sono certo che sia venuto per punirmi del mio NO al referendum che si
terrà domenica prossima, 12 maggio. Oggi è giovedì. La campagna elettorale è
ormai conclusa. A che servirebbe un omicidio? Ad un prete, in una casa
parrocchiale? L’uomo, intanto si dirige verso la finestra, tenendo in mano la
pistola. Osserva. La giornata è piovigginosa. Lo vedo vicino a me ed ho
addirittura l’intenzione di colpirlo al braccio per sottrargli l’arma. Ma è
solo un’idea fugace. Lui è piuttosto giovane, sulla trentina, giubbotto di
pelle color marroncino. Mi ordina di spingere il tavolo contro la porta già
chiusa e di sedermi, mentre lui resta in piedi con la pistola accanto alla mia
testa. Parla con un certo affanno.
“Sono fuggito dal carcere. Ce l’ho fatta. Da
questo carcere non c’era mai riuscito nessuno. Le guardie mi stanno già
cercando. Potrebbero arrivare qui da un momento all’altro. Sta zitto e non
fiatare”.
Restiamo in
silenzio. Guardo la pistola, a destra del mio viso. È una pistola a tamburo,
canna bianca e impugnatura marrone. Passano i minuti. Si sentono dei passi per
le scale. Poi niente. L’evaso guarda il foglio sulla macchina da scrivere, con
un certo interesse. Poi chiede:
“Chi sei? Cos’è
questa casa?”
Rispondo:
“Sono un prete e
questa è la casa parrocchiale”.
E lui:
“Un prete? In
borghese? Una casa con queste scritte e questi poster? Cosa stai scrivendo? Ho
sentito i battiti della macchina da scrivere e sono arrivato fin qui. Hai
un’automobile per accompagnarmi nella fuga? Aspettavo, per l’ora fissata, la
macchina davanti al carcere, ma non c’era. Sono saltato dalla finestra del
corridoio che dà sulla strada. Quasi tre metri di altezza. Ora mi fa male una
gamba. Per evitare che le guardie, dalle garitte sui muri di recinzione mi
sparassero, sono corso qui. La porta era aperta e sono entrato, salendo le
scale”.
“Sto scrivendo
il programma di terza media per gli esami delle persone che vengono qui a
scuola serale. Non ho l’automobile. Avevo una Fiat 500, ma ho dovuto darla allo
sfasciacarrozze. Alcuni ragazzi, una sera, se ne sono impossessati e sono
andati a sbattere contro un albero”.
Capisco di
trovarmi di fronte ad un tipo particolare. Un detenuto intelligente e
culturalmente interessato. Ha bisogno di parlare, di sfogarsi. Conosce molti
libri. Dice di aver fatto un’altra evasione, a Fossano. C’era stata
sparatoria, allora. Anche adesso avrebbe sparato, se qualche agente avesse
tentato di ostacolargli la fuga. Ma tutto è andato liscio. Senza guai. Finora.
Mi viene da pensare a Papillon. Ma anche a Jean Valjean. In questa casa
parrocchiale, da quando ci sono io, altri ex detenuti sono rimasti qui, per
qualche tempo, prima di tornare nei paesi d’origine, dopo aver scontato la
pena. Un calabrese, condannato per omicidio, vi rimase una settimana. Veniva a
scuola serale e commentavamo le pagine del romanzo di Victor Hugo, I
Miserabili. Un breve passo del romanzo stava scritto a mano su un poster,
attaccato alla porta. Ma l’evaso non era riuscito a leggerlo, per la fretta di
entrare. Sono le parole che Victor Hugo pone sulla bocca del vescovo mons.
Benvenuto Myriel, accogliendo l’ex-detenuto Jean Valjean: “Questa casa non è
mia, ma di Gesù Cristo e la sua porta non domanda mai il nome a chi la varca,
ma se ha un dolore. Che bisogno ho io di sapere il vostro nome? Prima ancora
che me lo diceste, ne avevate già uno che io conoscevo… vi chiamate mio
fratello”.
Tra me e il
detenuto si instaura un colloquio pacato, sottovoce, fraterno. Mi dice che si
chiama Horst Fantazzini, e che la stampa lo soprannomina “rapinatore
gentile”, “rapinatore solitario”. Mi fa notare il busto ortopedico,
un’ingessatura, e mi dice che proprio nell’ingessatura aveva tenuto nascosto la
pistola. Parliamo dell’istituzione carceraria, dei suoi metodi antiquati e
spersonalizzanti, della sua incapacità di realizzare le finalità previste dalla
Carta Costituzionale. Ad un tratto, un rumore. Lo spostamento di reti
metalliche. È la donna di servizio che si occupa della pulizia delle stanze
dove dormono alcuni operai della FIAT. Dopo quel 9 maggio mai più operai
avranno il coraggio di chiedere ospitalità nella casa parrocchiale! Avendo
riconosciuto che si trattava della lavoratrice domestica, Francesca, una vedova
di 55 anni con sei figli, la chiamo ad alta voce. Vedo girare la maniglia della
porta e sposto leggermente il tavolo. La donna, vedendo l’uomo con la pistola,
rimane allibita e si allontana in fretta giù per le scale. Constatando che non
arriva nessuno, l’evaso mi chiede di trovargli un nascondiglio. Lo aiuto a
salire sulla soffitta. Ma prima mi abbraccia, mi bacia, mi chiede di non
tradirlo, vincolando la mia coscienza di prete e dichiarando che altrimenti
avrebbe sparato o si sarebbe ammazzato.
Mario
continua a raccontare per altre tre pagine questa avventura che l’ha segnato
nel profondo. Subì insieme a Fantazzini
anche il processo, imputato di “favoreggiamento”. Fu poi assolto con formula
piena. L’articolo di cui parlo si apriva con questo interessante incipit.
“Lo
statuto dei gabbiani” (ed. Milieu 2012) è il titolo d’un libro che raccoglie
gli scritti e racconta la vita del famoso “bandito gentile” Horst Fantazzini, curato dalla compagna
Patrizia Diamante con prefazione di
Pino Cacucci. In realtà, neanche il titolo riesce a dare l’immagine dell’idea
di libertà incarnata da Fantazzini. Forse, volendo parafrasare Rousseau, che
nel “Contratto sociale” esordisce con l’affermazione “L’uomo è nato libero, ma
dovunque è in catene”, Horst Fantazzini,
paragonandosi al gabbiano, nega il concetto stesso di statuto, perché i
gabbiani “sono nati per volare liberi e per loro non ci sono statuti, né leggi,
né regolamenti”. In “Ormai è fatta!”, trasposto nell’omonimo film di Enzo Monteleone con Stefano Accorsi,
mentre Horst Fantazzini sta raccontando dettagliatamente la sua evasione dal
carcere di Fossano, cita Bernanos de “I grandi cimiteri sotto la luna”, la più
lucida e tremenda denuncia contro la guerra civile spagnola. “Io credo
inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini
liberi”, scriveva allora Bernanos. E Fantazzini ne riporta una frase lapidaria:
“La minaccia peggiore per la libertà non consiste nel lasciarsela strappare –
perché chi se l’è lasciata strappare può sempre riconquistarla – ma nel
disimparare ad amarla e nel non capirla più”. Ma è lui stesso a sentirsi in
colpa per quello che sta facendo: “Sì, c’è dell’egoismo in quanto sto facendo,
ma se le circostanze me lo permetteranno, questo potrebbe anche essere il primo
passo d’un cammino più lungo”. Quel cammino, allora immaginato, lo conduce da
un carcere all’altro, da un’evasione all’altra: 34 anni da gulag. Come nei
racconti della Kolyma di Salamov o le lettere dalle Solovki di Florenskij. Una
voglia di libertà frustrata, repressa. Una personalità mai domata, quella di
Fantazzini, fino all’ennesimo ed ultimo tentativo di rapina in banca, quel 19
dicembre 2001, in via Mascarella, a Bologna. E, tre giorni dopo, la morte per
aneurisma aortico. A 62 anni.”
Come accennavo dianzi, Mario mi mandava i suoi scritti. Erano
tutti d’una intensità e d’una profondità etica e culturale da capogiro. Molto
spesso ero io stesso che gli proponevo di diffonderli attraverso la rete dei
miei contatti stampa, conoscendo la sua discrezione e la sua modestia egli non
lo avrebbe mai chiesto. Ed è così che una straordinaria fioritura di scritti è
comparsa su decine di testate in Italia e su molte altre all’estero. Sarebbe il
caso di raccoglierli, questi scritti, per farne una pubblicazione, e forse lo
farò. Temi ricorrenti erano approfondimenti storici, filosofici, artistici,
sociali, un ampio spettro di questioni trattate con spiccata competenza,
esposte con chiarezza e con il dono d’una magnifica scrittura. L’ultimo
contributo me lo aveva inviato il 6 marzo: “Dall’Abruzzo
l’appello per la pace di Immanuel Kant e l’esempio di don Ottavio Colecchi”,
questo il titolo. Qualche giorno prima il comunicato stampa sulla XX edizione
della Marcia “Il Sentiero della Libertà”, con un programma diverso dalla
tradizionale Marcia, per via del Covid, che peraltro ha impedito l’iniziativa
negli ultimi due anni.
Vorrei infine solo
annotare l’amore che Mario Setta nutriva
per Pietro del Morrone, poi
diventato papa Celestino V. Sul
gesto della rinuncia alla tiara papale, sulle dimissioni del 13 dicembre 1294,
Setta ha scritto pagine di forte significato dove egli ammira il coraggio
profetico di Celestino nel
distaccarsi dal potere, per tornare ad essere umile eremita, segnando la
prelazione di un’Ecclesia spiritualis rispetto
ad una Chiesa contaminata dal potere temporale. Lo stesso principio che in più
occasioni ha portato Setta a
sostenere l’esigenza per la Chiesa di uscire dal regime concordatario per
recuperare fino in fondo, senza le convenienze del Concordato, la libertà di
testimoniare in autenticità e distacco dagli interessi materiali il messaggio
evangelico. Più volte è intervenuto sulla vita “rivoluzionaria” di Celestino V e sulla Perdonanza. Aveva tra l’altro scritto
in un suo articolo su Celestino: “La vita di papa Celestino V era stata una
vita pura, limpida, dedita completamente al bene del popolo. L’Alter Christus per eccellenza… D’altronde
era evidente e noto a tutti l’interesse e il rapporto che fra’ Pietro aveva
stabilito con la teoria di Gioacchino da Fiore (1130-1202), secondo cui l’età
dello Spirito Santo, dopo quella del Padre e del Figlio, era imminente, e
avrebbe apportato il predominio della libertà, della grazia, della Pace e
l’avvento del “Papa Angelico, il successore di Pietro che si eleverà in sublimi
altezze”, al quale “sarà data piena libertà per rinnovare la religione
cristiana e per predicare il Verbo di Dio… la gente non sguainerà la spada
contro i propri simili e nessuno si addestrerà alla battaglia”. Recentemente mi aveva anche impegnato in uno scritto a
firme congiunte, del quale avevamo condiviso l’analisi - “Celestino V e Benedetto XVI, le dimissioni da Papa”, questo il
titolo -, uscito su molte testate e che ho riportato nel mio ultimo libro “Mosaico di Voci”.
L’ultima annotazione
sulla spiritualità di Mario Setta,
che fondava sulla certezza di due capisaldi: l’Amore incondizionato e la
sterminata Misericordia di Dio, da un lato; dall’altro la Libertà dell’uomo e
della donna. Nel suo libro “Homo, elogio
di Eva” Setta afferma che non è
stato commesso alcun peccato originale, solo realizzato il primo impulso verso
la conoscenza: "Con il gesto di Eva nasce la
filosofia, l'amore per il sapere, Eva rappresenta la curiosità della scienza
contro la passiva accettazione della fede, superare l'idea dogmatica del
peccato originale ridarebbe alla missione di Cristo il suo valore profondo e
autentico: l'esemplarità umana”. Con questa libertà interiore Mario Setta è vissuto, testimone del suo tempo. Non sono io certamente
in grado di discernere in pieno il valore della sua testimonianza. Sono solo,
umilmente, certo sull’onestà della sua continua ricerca, sulla sincerità della
sua vicinanza all’uomo, suo prossimo, sull’autenticità dei valori morali che
hanno indirizzato la sua esistenza, sulla trasparenza e sul disinteresse delle
sue scelte, sulla libertà da ogni condizionamento di potere. Mario Setta, in coerenza con i propri
princìpi, ha voluto un funerale “senza sacerdoti né turiboli”, solo una modesta
croce di legno con indicato l’alfa e l’omega del suo cammino terreno, un’estrema
sobrietà verso la sepoltura nel cimitero di Sulmona. L’Abruzzo perde un grande
storico e intellettuale, un insigne testimone di valori universali.