Pescatori di uomini nell’isola del Vangelo

Non era soltanto la presentazione di un libro. Non erano solamente delle “conversazioni tra amici”. Non erano solo degli interventi carichi di spiritualità, di paternità e di fraternità. Addirittura, mi sento di dire che manco memoria storica e testimonianza erano i perni di questa giornata. Ma abbiamo scoperto che eravamo dentro il Vangelo e che tutte le pagine erano animate. Sono venuti fuori in modo sovrapposto: Gesù era al molo di Lampedusa e non aveva attorno a sé i discepoli, ma i lampedusani. Il ferito sulla strada di Gerico era stato soccorso nelle case dell’isola e il calvario non era il Golgota, ma quella collina della vergogna. Però, da queste pagine vive, durante quell’ora e mezza, non sono uscite la durezza dei cuori e l’indifferenza, ma la misericordia e la compassione. L’Amore vince per questo. Sempre. Ed ha l’ultima parola: si chiama Vita.

Non so perché, ma già nella loro visita isolana settembrina percepivo che “qualcosa” di particolare e bello si stesse preparando. In quei giorni movimentati e caldi della Madonna di Porto Salvo non riuscimmo a vederci, però. Il tutto era stato rimandato a questo tempo di novembre dove sarebbero tornati a Lampedusa per la presentazione del loro libro “Sbarchi di umanità”. E i momenti di vigilia già erano carichi di “cose buone” nel cuore e quando ci sono queste premesse si è sulla strada giusta.

Con Alfonso e Stefano abbiamo condiviso una bella fetta di cammino, qui, in anni diversi e sicuramente in fasi della vita in continua evoluzione, per cui, ciò che stanno venendo a “narrare” mi coinvolge in prima persona, in quanto posso dire che io c’ero e che ho visto. Come dirà don Vito, “entrambi hanno sentito il bisogno di scrivere tutto ciò per scendere in profondità”.

Ci siamo, quindi, avvicinati a questa presentazione pian piano, con telefonate e messaggi, ma in realtà stavamo già condividendo l’arrivo dell’evento.

Il tutto si rivestiva di una luce ancora più intensa quando seppi che ci sarebbe stato il “nuovo” vescovo, mons. Damiano (che fatica che faccio a ricordarne il cognome per via del nome che condividiamo). E non solo. È pure il nome di don Vito Impellizzeri che mi riporta ad una veglia di Pentecoste di qualche anno fa, celebrata qui, in parrocchia, con la presenza del Gen Verde. Tutto conservato nel mio cuore, ma a questo sacerdote devo la più bella descrizione dello Spirito Santo, cioè quella dell’Amore Nascosto (non aggiungo più niente per non dilungarmi). Invece, non conoscevo l’altro vescovo che interverrà alla presentazione del libro, mons. Mogavero, del quale vi dirò in seguito.

Arriva il giorno, finalmente, ed alle 16 eccomi in chiesa. Il clima è quello giusto. La presenza della gente, pure. Vi sono, tra i banchi, diversi di “quei pazzi del Vangelo” dei cinquantotto giorni del 2011. Un abbraccio ulteriore con Stefano e Alfonso e poi mi seggo tra i banchi.


Se adesso apro il cuore, mi permetto di dirvi cosa ne viene fuori, ben conservato e pronto per esser condiviso.

1. Mi colpisce come don Vito si prepari prima di iniziare a coordinare il tutto: lo vedo, seduto in una fila laterale e sta scrivendo qualcosa, ma quando sale nel luogo degli interventi, davanti l’altare, l’osservo ancora con attenzione. Ha un atteggiamento del corpo molto delicato, come di una persona che sta pregando perché tutto possa portare frutto. E quando poi prende la parola, rivedo l’uomo e il sacerdote delicatissimo che mi riporta a quella Pentecoste già citata: “Gesù dice – vi farò pescatori di uomini: Lampedusa ha preso alla lettera queste parole divine, pescando persone dal mare e non pesci”. E poi, due domande-provocazione: “Questa parte di storia data alla comunità, raccontata da Alfonso e Stefano, ha avviato una riflessione comunitaria? Cioè, c’è stata una presa di coscienza che ci ha cambiato?” ed infine “Come si inserisce la novità della visita del papa in questo contesto di salvezza di vite umane?” 

2. Inizia a parlare il vescovo, che non avevo mai incontrato e mai ascoltato di presenza. Mi piace e non poco. Vi dico perché: un agnello sa riconoscere se ha davanti il suo pastore. E Padre Alessandro lo è. “Sono venuto qui già tre volte e sempre ci sono stati sbarchi, per questo vedo in voi l’albergatore a cui il samaritano affidò il ferito-naufrago. Capite? È Gesù che ci visita, è Dio stesso che passa da Lampedusa, è l’umanità redenta da Lui che chiede accoglienza e salvezza”. Mi colpisce anche lui. Il segno è la commozione che cerco di nascondere (e questo si ripeterà durante l’omelia nella celebrazione delle Cresime che succederà a questa presentazione). Aggiunge: “Ci dobbiamo scoprire mendicanti di umanità in un tempo di disumanizzazione per poterla salvare, ma credo che sia assurdo che le parole usate da don Stefano più di dieci anni fa possano andare bene ancora oggi: un’emergenza infinita!” Ad un certo punto, perfino il tono di voce si fa più profondo ed aggiunge: “Penso che i poveri sono in se stessi un discorso su Dio e dobbiamo uscire dalle cattedre per fare una teologia che guardi dalla prospettiva dei piccoli”. Infine, conclude cambiando ancora tono: “Sono venuto qui a Pasqua e alla luce del battesimo penso che ognuno di noi debba essere profeta per leggere questa storia continua di sbarchi, ma a me che sono pastore spetta la vigilanza e, se fosse il caso, la denuncia, non per far male a qualcuno, ma per poter permettere una crescita nelle coscienze. Un giorno verrà il giudizio di Dio, ci ha ricordato Giovanni Paolo II, e qui dobbiamo fare tutti attenzione perché chi ci dice di escludere la presenza della criminalità organizzata in entrambe le sponde continentali?”

3. Mi piace pure mons. Mogavero. Pulito, dolce, attento. “Alfonso e Stefano hanno cercato un filo rosso in questi avvenimenti di tensioni, di chiaroscuri e di salvezza. E sicuramente hanno cercato di colmare il vuoto che sta dietro a tutto ciò, esattamente quello dei valori da parte di politici, giornalisti e gente comune”. Continua: “Non si vuole andare alla radice, questo è il problema e la causa è che si tratta di persone che vogliono vivere una vita migliore”. E tocca un punto delicato: “La gente ormai parla per luoghi comuni, vedendo gli immigrati come portatori di tinte nere, ma io vi posso dire che a Mazara del Vallo non c’è più un peschereccio che possa prendere il largo se non grazie a lavoratori africani. E poi, nel nostro Paese, non si trova più una badante italiana. Eppure, noi li accusiamo di toglierci il lavoro!” Aggiunge: “Viviamo in un tempo malato, come diceva don Turoldo, ma che può essere salvato con i valori del Mediterraneo, luogo di conflitti, ed è vero, ma soprattutto luogo di incontro tra civiltà e religioni, luogo di condivisione di benessere e cultura. E non dimentichiamo che il Cristianesimo è arrivato a noi proprio dal mare!” La conclusione è bellissima: “Occorre una teologia del Mediterraneo, che metta al centro non Dio, ma nella luce di Dio stesso proprio l’uomo. Invece, la persona è stata tolta, uccisa, annegata”. “Lampedusa ha dato una grande lezione al mondo, si è fatta samaritana, ha aperto cuori e porte e non ha guardato numeri. Una lezione che, però, il mondo non vuole capire. Meritavate il Nobel, ma sarà Dio a riempirvi di gloria e benedizione!”

4. L’intervento di Alfonso è brevissimo (per ragioni di tempo): “Nel libro ci sono tre immagini: NOMI, VOLTI E SACRAMENTI.  Non ho mai dimenticato i vostri nomi, vi conservo sempre nel cuore e so che ognuno di voi è portatore di salvezza. I vostri volti sanno di Vangelo e voi siete quel Mosè, che dopo aver visto Dio, aveva riflessa nella propria faccia la luce del Signore: nei vostri volti, ho scorto quello di Cristo. Voi avete unito i due sacramenti, infine: quello dell’eucaristia e quello del povero che sono un’unica carne e che non bisogna separare”.

Ma qui le parole non servono. Le troveremo nel libro (una mole di lavoro certosina e attentissima alla gente di Lampedusa). È la sua presenza il segno, quella di Alfonso. Abbiamo condiviso un anno pastorale, il 1997 - 1998, e potrei fare un elenco infinito di tutto ciò che sperimentammo. Lo so io e lo sa lui, ma lo sa pure la gente. Si tratta di un ritorno prezioso, assai desiderato e con un prezzo molto alto già versato alla cassa della vita.


5. Infine, tocca a don Stefano. Sei anni. Sei! A lavorare insieme. Pure qui, è impossibile ricostruire l’intensità di quel tempo condiviso. Mentre parla, non so perché, più volte mi giro alla mia destra dove c’è la mamma, Vita, e la nipote. Loro non sono “figure secondarie” in questa presentazione, anzi. E Stefano sa di cosa parlo. Anche quella targa in memoria della visita del papa e il tempio colorato avvolgono questo sacerdote che viene riconosciuto, ancora oggi, come pastore dalla gente di Lampedusa. Bastava vedere come lo cercassero e come lo guardavamo anche dopo la celebrazione delle Cresime. Inizia, rispondendo ad un invito di don Vito, cioè sulla visita del papa e sulla “Fratelli tutti”: “Io ho avuto la sensazione che alcune parole di Papa Francesco siano nate proprio qui, a Lampedusa, in quel giorno intenso di luglio. Cioè, il papa propone al mondo ciò che la comunità del posto ha già vissuto. Vi confido che durante la conclusione della Messa, lui mi sussurrò: - in queste ore che sono stato accanto a lei, ho visto la tenerezza di Dio. In realtà, era la tenerezza di tutta la comunità che ha fatto solidarietà non a chiacchiere, ma con gesti concreti e spesso nascosti e ripetuti. Qui, prima si è fatto e poi si è scritto”. È emozionato, ma felice. Si vede chiaramente. E conclude: “È fraternità non insegnata. Molti lampedusani portarono alla loro tavola i fratelli immigrati, condividendone anche la doccia. Diciamocelo chiaro: chi fa questo, oggi? Questo, qui, è successo”.


Posso ben confermare che in questo giorno si sono raccontati fatti e non parole. Volti, dirà Alfonso. “Lampedusa, luogo teologico, ribadisce don Vito, cioè luogo di Dio e degli uomini. Puoi venire a Lampedusa per scavare, cercare e trovare il legame tra il divino e l’umano. Attingendo non solo dalla Parola di Dio, non solo dalla Tradizione dei Padri, non solo dalla Liturgia, ma proprio dall’isola dove è chiaro il legame reciproco tra il Signore e il suo popolo”. 

A Lampedusa, l’uomo incontra l’Uomo della Croce, il cui volto è presente in un mosaico tridimensionale: quello del Cristo sofferente che sbarca nell’isola, quello della Madre, cioè della gente di Lampedusa, che ha accolto nel suo grembo chi ha teso le braccia per chiederne aiuto e quello dei Pastori che si riconoscono tali soltanto se amano e servono immigrati e lampedusani, figli d’alto mare, entrambi bisognosi di misericordia e di padri (e madri). 

Questo pensavo: nell’isola si può essere credibili solo quando dai tutto te stesso. Cioè, don Stefano non è soltanto il profeta del 2011, ma è anche il padre di una Lampedusa che lui ha servito e che si è sentita amata (durante le prove dei canti, Stefano ed Alfonso cercavano in tutti i modi di capire chi fossero i tanti ragazzi musicisti e a quale famiglia appartenessero). 

Per questo il libro è credibile, perché la credibilità stessa si poggia sul servizio all’immigrazione e sul servizio alla comunità.

Non dimentico Filippo. Perché sono convinto che in tutto questo “ci sia pure lui” e il mio cuore non poteva dimenticarlo.

    ALESSANDRO FRANCO CORDARO

Fattitaliani

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