Il passato è ostinatamente ostico. Per quanto gli uomini cerchino di ammorbidirlo, ammaestrarlo, addomesticarlo, annetterselo mostra un’irritante, persistente irriducibilità a qualsiasi normalizzazione. Questa durezza dei fatti aumenta quanto più le ideologie pretendono di piegarli ai propri interessi. Non è un fenomeno moderno affrontare la storia senza tentare di comprendere ciò che è avvenuto nella sua complessità. Vi è un filo rosso che collega la damnatio memoriae di faraoni egizi cancellati dall’elenco dei regnanti con la folla che, abbattendo una statua, pensa di vendicare i torti del passato. Ma i secoli non sono trascorsi invano e se dietro i nobili ideali che muovono all’assalto di indifesi manufatti si possono occultare molto meno nobili sentimenti, non è da dimenticarsi che non v’è nulla di più facile ma anche di più falso che considerare il passato a disposizione del nostro giudizio o pre/giudizio.
Non
si tratta solo, com’è stato giustamente evidenziato, di una dittatura del presente;
senz’altro gli eccessi della cancel culture nascono da un sentimento
che giudica il passato in base unicamente a ciò che si prova oggi, riconducendo
tutto al metro di un’attualità appiattita su un unico valore, misteriose e
insondabili le motivazioni della scelta, autorizzato a emettere inappellabili
sentenze sulla totalità dell’agire umano. Oltre ciò si manifesta un tribalismo
che riscrive unilateralmente quanto avvenuto innescando spirali di accuse e
recriminazioni alla lunga incontrollabili. Emergono così la difficoltà di considerare
la storia in modo razionale, ovvero né discriminatorio né giustificatorio,
l’espansione fino al ridicolo di un risentimento, talvolta giustificato, verso
la contemporaneità, l’autoassoluzione di gruppo verso processi storici che non
hanno quella banale linearità fantasticata e, infine, un sentimento che, basandosi
non sul principio della responsabilità individuale bensì sul sentirsi parte del
gruppo dei giusti e puri con torti secolari da vendicare, identifica
l’avversario a partire dalla sua appartenenza etnica o sessuale o religiosa.
Significativo
è quanto accade con Cristoforo Colombo, con il Columbus day e con gli attacchi a cui è stato sottoposto. Al
riguardo non viene mai posto, come giustamente si è spesso fatto, il problema
storico di quale europeo scoprì l’America,
ormai è accertato che prima di Colombo arrivarono i vichinghi e, forse, prima
ancora, addirittura i romani; ciò comporterebbe troppo lavoro storico e
archeologico, troppa fatica intellettuale nell’affrontare, questo è il punto,
il senso dell’espressione “conseguenze della scoperta” in modo ampio,
complessivo. No. E’ più facile, soprattutto ideologicamente utilizzabile,
considerare solo l’aspetto ambiguo e negativo (esistono accadimenti storici che
non lo sono?) dell’arrivo degli europei; ma possiamo addebitare al navigatore
genovese il massacro di Wounded Knee?
Prendendosela
con le sue statue non solo si sbaglia simbolo, non solo non si comprende la
storia con le sue tante sfaccettature e responsabilità personali, ma si
contribuisce solamente ad avvelenare il presente con nuovi odii e nuove
divisioni basati su una ricostruzione fantasmatica del passato in cui
quest’ultimo si dilegua in una nebbia dove non esiste nessuna, reale differenza
tra gli episodi evocati; alla grande tragedia dell’umanità si sostituisce un
raccontino con esiti che sarebbero comici non avessero conseguenze pesanti:
accusare Colombo dello sterminio dei
nativi delle praterie nordamericane è
come addebitare la responsabilità dei naufragi all’inventore della bussola.
Farsi un’idea storicamente fondata di quanto avvenne è faticoso. Richiede
ricerca (la parola greca historiai
vuol proprio dire ricerche), impegno, studio, discernimento; molto, troppo per chi
nella quotidianità ha ben altri impegni da sbrigare, ben altre esigenze
concrete da soddisfare.
Ma
qui si profila la grande responsabilità delle istituzioni culturali americane.
Nel 2015, in tempi non sospetti, Barack
Obama rilevava come pericoloso, in alcuni episodi verificatisi nelle università,
il fatto che “gli studenti non vogliono leggere un libro se ha un linguaggio
offensivo verso gli afroamericani o in qualche modo sminuisce le donne. Devo
dirvi non sono d’accordo con questo atteggiamento”: il politically correct,
stava già imponendo la sua egemonia sul sapere e sulla trasmissione del sapere.
Il fenomeno è diventato devastante nel momento in cui, radicalizzatosi nella cancel
culture, si è trasformato in ideologia di massa alimentata nei social e
saldatasi con situazioni di emarginazione sociale ed economica a cui ha dato
sfogo. In tal modo il risentimento, talvolta assolutamente legittimo, per un
presente frustrante, la necessità di una spiegazione semplice e
onnicomprensiva, la comprensibile sete di giustizia e la confortante certezza
di essere dalla parte del Bene hanno ampiamente contribuito ad annebbiare le
facoltà intellettive. Dividendo il mondo in gruppi compatti ci si risparmia la
fatica di analizzare le differenze illudendosi di comprendere tutto; così
Colombo è assimilabile agli aristocratici schiavisti sudisti o ai conquistadores spagnoli e poco importa
se lui, per primo, auspicava la tolleranza e il reciproco rispetto, su base
religiosa, tra indigeni e spagnoli, poco importa, per fare un altro esempio ma
i casi sono molto numerosi, se la Corona di Spagna e, soprattutto, la Chiesa
Cattolica in più riprese condannarono lo schiavismo dei coloni del Sud
America.
C’è
sete di semplicità, non di approfondimento. Il guaio è che la storia,
soprattutto quando è brandita come arma contundente, è sempre ostica,
complessa, piena di promesse incompiute che ci chiamano e di oscurità che ci
confondono. Ci si indigna, giustamente, per i colossali Buddha cannoneggiati
dai talebani ma c’è chi voleva distruggere la statua di Churchill perché fu un colonialista britannico; Churchill
fu senz’altro anche un colonialista, ma ciò ci autorizza a dimenticare il ruolo
da lui svolto nella sconfitta del nazifascismo? Ci autorizza a equipararlo a Goebbels?
Nell’estremismo puritano della cancel
culture opera, come in qualsiasi estremismo, una corruptio optimi pessima in cui istanze, sacrosantamente legittime,
si ribaltano in una prassi isterica e violenta che danneggia i gruppi che
pretende di difendere. Questa esigenza di riscrivere la storia a proprio uso e
consumo, questa semplificazione grottesca e barbarica del passato, questa
ricerca senza sosta di un capro espiatorio, come Colombo, su cui addossare
tutto il male e al contempo dare omogeneità a nuove, fantasmatiche identità
collettive, non è comune anche ad altre manifestazioni di questi nostri tempi?
Non
c’è un’aria di famiglia tra chi manipola la storia facendone un enorme inganno
perpetrato ai danni di un gruppo particolare visto sempre come totalità e mai
composto da individui (qui la scelta è ampia e “alla carta”) e chi vede
l’attualità come una diabolica macchinazione ordita, di nuovo a scelta, da neri,
ebrei, massoneria, cattolici, femministe, omosessuali, vaccinatori ecc.? Non
siamo forse davanti a una forma di complottismo rivolto all’indietro che nulla
ha a che fare con quanto realmente accaduto? Sembra infatti che cambi solo il
giudizio di valore, ma il meccanismo di costruzione di un nemico e di
un’identità collettiva è lo stesso ed è sempre basato sull’odio. Se questi
ultimi anni si manifestano come l’epoca del populismo complottista, la cancel culture ne potrebbe essere, in
quanto contraccolpo, uno dei suoi frutti o, meglio, l’altra faccia della
medaglia; per questo, riprendendo quanto detto all’inizio, i secoli trascorsi
dai faraoni non sono passati invano.
Il desiderio, sempre presente e connaturato all’essere umano, di scrivere e riscrivere la storia anche in base ai propri, magari inconsci, interessi, si coniuga oggi con fenomeni economico-sociali e politici nuovi. Ciò va al di là delle tradizionali divisioni politiche; indubbia è l’origine di sinistra sia del politically correct sia della cancel culture, come peraltro riconosceva lo stesso Obama nel discorso succitato, ma, insieme al populismo, attingono a un comune sentimento pre-politico e al bisogno di semplificare riducendo la complessità a formulette utilizzabili in tutte le occasioni: la storia e l’attualità sono ridotti a barzelletta, ma la frustrazione trova uno sbocco. Si assiste al dispiegarsi in tutta la sua brutalità dell’apparentemente brillante sentenza di un filosofo ottocentesco secondo cui “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”; però, mutatis mutandis, abbattere le statue di Colombo ricorda, molto più semplicemente, quelle fotografie della rivoluzione russa da cui alcuni rivoluzionari erano improvvisamente spariti, cancellati; la cancel culture, espressione talmente contraddittoria da essere logicamente insostenibile (si dà cultura cancellando, secondo il proprio arbitrio, ciò che è sgradito?), approda al compito assegnato al protagonista di “1984”: riscrivere la storia in base al motto orwelliano ”l’ignoranza è forza”. Nicola F. Pomponio