State buoni se potete, l’ultima impresa storico-critica di Pasquale Lettieri

Disponibile in libreria del 1° febbraio.

Tra i quesiti più affascinanti della pratica filologica cui conduce lo studio storico-artistico è indubbiamente la ricostruzione della storia di un manufatto d’arte

.Al di là dell’esercizio attribuzionistico, che può essere più o meno convincente, più o meno supportato da evidenze scientifiche o archivistiche comprovanti, è la logica che sottende la metodologia che costituisce l’autentica prova di qualità, l’atto che dà valore e consistenza storica all’oggetto. Se, da un punto di vista estetico, le proprietà dell’opera emergono all’occhio in modo immediato e spontaneo, è però la ricostruzione della storia di quel medesimo prodotto del genio umano che lo pone come testimonianza storica unica, a prescindere dal suo autore, dalla bellezza superficiale e dal suo stato di conservazione. È solo quando l’uomo riscopre il senso della storia attraverso la narrazione del singolo oggetto che quello stesso manufatto assume l’urgenza di essere tramandato alla posterità, facendo assurgere al decoro dell’eternità la narrazione che soggiace alla sua lettura. Tale premessa ben si attaglia all’intendimento che questa pubblicazione si prefigge, ossia restituire, soprattutto al pubblico dei non addetti ai lavori, un esempio di studium su un dipinto di cui si era persa memoria e traccia storica, finanche il ricordo dell’identificazione iconografica del personaggio effigiato, nonostante sia doppiamente importante: da un lato perché si tratta di uno dei protagonisti principali di quel fermento spirituale e dottrinale che ha segnato la Chiesa della Controriforma durante il XVII secolo; dall’altro lato perché si tratta di uno dei primi modelli iconografici legati a tale personaggio, modello che successivamente ha costituito un vero e proprio tratto distintivo per il soggetto in questione. Tale modello iconografico rappresenta la tradizione ritrattistica di Filippo Neri (ancora non santificato ma già venerato non solo a Roma) così come impostata e voluta da Cristoforo Roncalli, il Pomarancio, uno degli artisti più apprezzati nella Roma sul crinale tra XVI e il secolo successivo. L’effigie fissata dal Pomarancio, e poi successivamente diventata topos per chiunque volesse rendere riconoscibile le sembianze del fondatore della Congregazione dell’Oratorio, prevede il semplice abito da sacerdote secolare, con il cappello tricornico che poi diventerà tipico dei Padri filippini, e il rosario nella mano, cui Filippo Neri fu sempre devoto. Il volto del futuro santo fu desunto dalla sua maschera funebre, poiché da vivo mai cedette alla vanità di far fissare le proprie sembianze mortali. Il Pomarancio fu chiamato dai seguaci di quell’uomo semplice, che inneggiava alla gioia di vivere e che aveva speso la propria vita in difesa di quanti vivevano nella disuguaglianza sociale e d’istruzione. La scelta del Pomarancio non fu certo casuale: Roncalli era non solo uno degli artisti più famosi di Roma all’epoca, coinvolto in molteplici cantieri, ma era da sempre molto vicino alla curia romana. In questa ricostruzione storico-filologica, un altro aspetto è particolarmente interessante, vale a dire la provenienza, ricerca che ha supportato lo svelamento di quella narrazione così importante da un punto di vista della ricerca metodologica. Sul retro del dipinto, infatti, si conserva un’etichetta cartacea che riconduce la proprietà del dipinto a Ugo Jandolo, ultimo abitante del Palazzo di Pio IV sulla via Flaminia a Roma; Ugo Jandolo, infatti, fu un antiquario molto colto, proveniente da una celebre famiglia romana di mercanti d’arte. Comprò nel 1920 il palazzo Borromeo sulla via Flaminia, appunto indicato nell’iscrizione, e ne promosse il restauro integrale per utilizzarlo come abitazione e galleria d’arte. I lavori di restauro furono completati nel 1923, ma nel 1929 venne acquistato dal Governo Italiano per farne la sede dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede dopo i patti lateranensi. Il riferimento a Pio IV deriva dall’appartenenza del palazzo a Giovanni Angelo Medici di Marignano (Milano, 31 marzo 1499 – Roma, 9 dicembre 1565), eletto al soglio pontificio nel 1559, fu il pontefice che portò a conclusione il Concilio di Trento. Fu zio di San Carlo Borromeo, ramo della famiglia cui passò il palazzo romano. L’acquisizione del dipinto da parte di Ugo Jandolo avvenne verosimilmente insieme agli arredi del palazzo di Pio IV e fu alienato prima del 1929. Con tutta probabilità, dunque, il dipinto appartenne a un membro della famiglia Borromeo. I contatti tra Filippo Neri e la famiglia Borromeo sono sicuramente attestati e furono continui: il prelato conobbe Carlo già negli anni finali del sesto decennio del XVI secolo; il cardinale di Milano invitò spesso il futuro santo a fondare una comunità come quella dell’Oratorio romano in Lombardia, aspettativa che il Neri disattese. Papa Pio IV nel 1564 affidò a Filippo Neri il controllo della chiesa di San Giovanni Battista de’ Fiorentini, a sua volta dal Neri affidata ai suoi seguaci. Infine, Filippo Neri fu grande amico anche di Federico Borromeo, il quale accorse a Roma negli ultimi giorni di vita del futuro santo per amministrargli personalmente l’eucarestia.

Ecco che, dunque, la parabola metodologica si completa, da una parte lo studio iconografico e storico-stilistico di un dipinto che si inserisce nella tradizione iconica di Filippo Neri così come promossa a partire dai prototipi roncalliani, dall’altra la ricostruzione di provenienza del singolo oggetto, attraverso un’indagine che l’autore, Pasquale Lettieri, conduce con appassionata fascinazione, rivolta non esclusivamente agli addetti ai lavori, ma in grado di entusiasmare il pubblico più ampio.

C.P.

Fattitaliani

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