di Riccardo Bramante - Quando i bersaglieri entrarono a Roma nel settembre 1870 si raggiunse l’unità dell’Italia ma rimaneva aperta la questione di quale dovesse essere la capitale. Ci si trovava di fronte ad un Paese che fino ad allora era vissuto nello scontro degli eterni campanili e di piccoli staterelli che si combattevano tra loro; in più vi era una forte componente di cattolici che aborriva l’idea di un papato che non avesse Roma come fulcro centrale.
Prevalse, però, il sogno di Camillo Cavour, primo ministro del regno, che già in un suo discorso del marzo 1861 (pochi mesi prima della sua morte) ebbe a dire che “Su Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni di capitale di un grande Stato” e qualche giorno dopo il Parlamento decise che “Roma, capitale acclamata dell’unione nazionale, sia ricongiunta all’Italia”.
In quel momento l’impresa sembrava decisamente impossibile stante l’opposizione del clero e di una gran parte dei cattolici, ma, soprattutto, per la presenza a Roma di truppe francesi chiamate a difesa dello Stato Pontificio.
Si accettò, così, di spostare provvisoriamente la capitale da Torino a Firenze, ma quando l’imperatore francese Napoleone III fu sconfitto dai Prussiani a Sedan nel settembre 1870, Vittorio Emanuele II si convinse che era venuto il momento e, cercando di risolvere il problema in via diplomatica, fece pervenire una lettera al Papa Pio IX Mastai Ferretti per chiedergli di non opporsi al corso naturale della Storia e accettare che Roma divenisse ufficialmente capitale degli italiani.
Il Papa rispose gelidamente che avrebbe pregato per l’anima di Sua Maestà perché ne avrebbe avuto bisogno. (C’è da chiedersi se in quel momento Pio IX si sia ricordato di essere, oltre che Pontefice, anche italiano).
Ma ormai il dado era tratto: il generale Raffaele Cadorna entra a Roma dalla breccia di Porta Pia, limitando i possedimenti del Papa al Vaticano, il Laterano e la villa pontificia di Castel Gandolfo ed il 3 febbraio 1871 Roma viene proclamata Capitale del Regno d’Italia; evento fondamentale non solo per l’Italia ma anche per l’intero principio del liberalismo europeo dal momento che nasceva uno Stato monarchico che riconosceva, però, la sovranità popolare espressa in un Parlamento costituzionale.
Certamente i primi tempi furono difficili; i nuovi arrivati si trovarono in un paesone ridotto a solo 200.000 abitanti, con una popolazione inerte e priva di vitalità, fortemente scettica nei confronti dei nuovi governanti dopo secoli di dominio pontificio estremamente conservatore e refrattario ad ogni istanza di progresso. Seguì, dunque, un periodo di rapida ristrutturazione amministrativa ed urbanistica della città che in pochi decenni la portò a toccare livelli vicini a quelli delle principali capitali europee, Parigi, Berlino, Londra.
Oggi possiamo dire che nonostante le immani difficoltà concrete che si era dovuto affrontare era prevalso il mito ideologico che l’Urbe portava con se, alimentato nel corso dei secoli da una storia leggendaria legata non solo alIa realtà italiana ma all’Europa intera, tanto da far chiedere allo storico tedesco Theodor Mommsen, alcuni anni dopo la proclamazione a capitale, ai politici allora al governo: ”Cosa intendete fare a Roma? Questo ci riguarda tutti perché a Roma non si sta senza propositi cosmopoliti!”
E ancora oggi, viste le esperienze recenti, il mondo giustamente sembra chiederci: “Cosa intendete fare con Roma?”