Ciao Salvatore, benvenuto e grazie per aver accettato
il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori? Chi è Salvatore
scrittore e chi Salvatore nella sua quotidianità?
Ringrazio voi per il gentile invito. Mi presento come
un dilettante nel senso “sciasciano” del termine, cioè di chi svolge
un’attività per puro diletto e passione. Nella quotidianità sono un libraio il
quale esercita la professione da un quarantennio e tra qualche mese andrà in
pensione.
Qual è
la tua formazione professionale? Ci racconti il percorso che ti ha portato a
svolgere quello che fai oggi?
Ho cominciato
a lavorare nel lontano 1979, nella libreria Ciuni di via Sciuti.
Come accade spesso ho iniziato per caso. Sono stato fortunato perché ho avuto
come maestro Lorenzo Macaluso, uno dei più valenti librai palermitani,
il quale mi ha insegnato l’abc del mestiere. In quel tempo si imparava molto
ascoltando chi aveva esperienza fatta sul campo, e lui era uno di questi. La
trasmissione del sapere avveniva nella forma orale, non v’erano i ritrovati
informatici di adesso. Ho imparato tanto anche dai clienti: via Sciuti era
popolata da intellettuali, scrittori, insegnanti universitari e giornalisti.
Ero un ragazzo di poca cultura pieno di complessi, mi sentivo inadeguato in
quell’ambiente così esigente; l’atteggiamento di certi clienti a volte poteva
essere crudele. Ho raccontato tutta questa epopea in due memoir: “La Città e i libri. Le avventure di un libraio” e in “Collezione privata. Scrittori, persone e libri” che ebbero buona
accoglienza presso un certo pubblico.
Come nasce la tua passione per la scrittura? Ci racconti come hai
iniziato e quando hai capito che amavi scrivere?
La passione c’è sempre
stata, mi mancava però la consapevolezza di poter esordire. Nei primi anni
della mia attività mi sono concentrato esclusivamente sull’apprendimento del
difficile mestiere di libraio. La scrittura covava ma bisognava tenerla a bada.
L’interesse per la scrittura è nato dall’osservazione; l’osservazione è una
forma di letteratura, secondo me. Mi sono messo alla prova nel lontano 2006, allorquando pubblicai il mio primo libro Inchiesta in Sicilia,
un omaggio alla letteratura di Elio Vittorini, scrittore che a quel
tempo amavo molto e che continuo ad amare. Era un racconto autobiografico in
cui parlavo anche del mio paese, Monreale: la letteratura dell’io, insomma. In quel
libro ricordavo alcuni episodi della mia infanzia e della prima giovinezza,
attraverso la figura di un maestro elementare che in treno raggiunge Messina e
ad ogni fermata incontra qualcuno che lo turba o lo intriga. A quel titolo si
affianco due anni dopo, 2008, La difficile indagine sentimentale, una
sorta di ideale seguito, giocato su toni più cupi e introspettivi. Mi accorsi
però che il risultato, al netto di qualche consenso critico, era al di sotto delle
mie aspettative. Per otto anni non scrissi più nulla. Mi dedicai allo studio e
a certe letture di critica, mia vera passione.
Ci parli del tuo nuovo libro scritto insieme a Mario
Grasso, C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo
di Alì Marina? Come
nasce, qual è il messaggio che vuoi che arrivi al lettore, quale la storia che
ci racconti, senza ovviamente fare spoiler?
Questa conversazione con Mario Grasso, su Stefano
D’Arrigo viene da lontano, diciamo dalla fine degli anni ’90 del secolo
scorso. A quel tempo infatti risale il mio interesse per la figura e l’opera di
D’Arrigo e del suo capolavoro Horcynus Orca, un
romanzo la cui stesura lo impegnò per circa un quarto di secolo. Mario Grasso è
stato uno dei primi recensori e critici dell’Horcynus, diventando in seguito amico e confidente di D’Arrigo. Nel
tempo ho avuto tante conversazioni con Grasso sull’opera dello scrittore di Alì
Marina. Mi accorsi che era un peccato lasciarle cadere nel vuoto. Così, approfittando
del centenario della nascita (1919-2019) ho chiesto a Grasso di fissare i suoi
ricordi in un testo. Il libro è composto da tre sezioni: la nascita del poeta;
il grande lavoro sull’Horcynus, la
terza parte su l’uomo D’Arrigo. L’intervista è una sorta di risarcimento, verso
il grande scrittore, il quale è stato pochissimo ricordato in occasione del centenario,
e per me è scandaloso. Nemmeno la Sicilia letteraria si è accorta del
centenario della nascita di uno dei suoi massimi letterati.
Chi sono i destinatari che avete immaginato mentre lo scrivevate?
I destinatari sono i lettori che amano indagare figure
poco note di scrittori come lo fu D’Arrigo. Dopo la vampata del 1975,
anno della pubblicazione di Horcynus
Orca, lo scrittore di Alì Marina venne rimosso e considerato un caso limite
della letteratura; un attaccabrighe presuntuoso e sprezzante, uomo dalla lingua
salace. Egli aveva sì, un carattere sanguigno, ma era uno schermo, una corazza,
per difendersi da un certo potere delle lettere, specialmente quello romano che
faceva capo a Moravia, che aveva una concezione della letteratura
opposta a quella di D’Arrigo. Egli viveva di letteratura come il teologo vive
per le sacre scritture. La grande letteratura è fatta anche di questi uomini. È
stato un dono inestimabile avere avuto uno scrittore come lui, che ci ha
consegnato un capolavoro della letteratura di tutti i tempi.
Ci parli del tuo compagno di scrittura di
quest’opera letteraria, Mario Grasso? Chi è nel mondo dell’arte dello scrivere
e come lo hai conosciuto?
Mario Grasso è un letterato nato ad Acireale nel 1932, ma
catanese di adozione. È critico letterario, giornalista, poeta e talent-scout.
Da molti decenni lavora nell’editoria. Ha fondato riviste come “Lunarionuovo”
e “La Gazzetta ufficiale dei dialetti” una casa editrice, Prova
d’Autore, che dirige con la moglie Nives Levan. Studioso di poesia
dialettale, vanta numerose collaborazioni a quotidiani e riviste. La nostra
amicizia è nata in libreria in mezzo al vociare dei clienti, agli inizi degli
anni ’90. Le sue discussioni sulla letteratura erano ricche di informazioni mai
banali e avevano un punto di vista sempre originale, con rimandi ad altre
discipline. Il nostro dialogo è poi proseguito nel tempo sotto altre forme. Nel
2006 mi ha fatto esordire come scrittore sotto le insegne della sua casa
editrice, accompagnando il mio romanzo Inchiesta
in Sicilia con una lusinghiera prefazione.
Una domanda difficile, Salvatore: perché i nostri
lettori dovrebbero comprare C’era una volta un certo Stefano D’Arrigo
di Alì Marina? Prova a incuriosirli perché vadano in libreria o nei portali online
per acquistarlo.
Perché è un lavoro serio, ricco di
informazioni su uno scrittore geniale, per nulla omologabile alla massa degli
scrittori odierni che scrivono con velocità libri di dubbio valore. D’Arrigo
non si piegò mai allo “star system” letterario, il suo libro fuori
misura, torrenziale, di 1257 pagine, è la prova provata della sua genialità di
artista solitario che scrive “il libro per il libro”. Un romanzo l’Horcynus, che racchiude nella sua pancia
tanti piccoli romanzi; basti pensare che tra personaggi principali e secondari
ve ne sono censiti più di trecento! È uno dei più grandi libri sul mare che
siano mai stati concepiti, ma non solo questo; è anche una umanissima
riflessione sui danni della guerra, e sulla morte. Un libro sulla Sicilia
mitica di mitici pescatori tra Scilla e Cariddi. Ma è anche tante altre cose.
C’è qualcuno che vuoi ringraziare che ti ha aiutato a
realizzare questa opera letteraria? Se sì, chi sono queste persone e perché le
ringrazi pubblicamente?
Certo che sì. Per primo Mario Grasso, che ha
accettato di sottoporsi al fuoco delle domande con slancio adolescenziale
dall’alto dei suoi ottantotto anni! Stefano Lanuzza, anche lui tra i
massimi esperti dell’opera di D’Arrigo; ha scritto una profonda ed articolata
prefazione che arricchisce il nostro lavoro. La mia amica Laura Sciarra,
preziosissima collaboratrice e paziente ordinatrice. Li ringrazio pubblicamente
e vivamente, perché questo lavoro era difficile da portare a compimento con le
mie sole forze. Il progetto viene da lontano e solo oggi vede la luce per la
felice congiunzione di tante coincidenze. Non posso non ricordare,
ringraziandoli, gli editori Daniele Anselmo e Luigi Di Salvo, che
hanno creduto e scommesso in un testo obiettivamente non facile.
Nella tua attività letteraria hai
pubblicato altri libri e romanzi. Ci racconti quali sono, di cosa trattano e
quale l’ispirazione che li ha generati?
Ho esordito nel 2006 con Inchiesta in Sicilia. Un racconto su
base autobiografica, ma con personaggi inventati. Quel lavoro ebbe un seguito
nel 2008, La difficile indagine
sentimentale, che indagava la mia adolescenza, le crisi, e tutto quello che
poteva capitare ad un giovane nato nel 1956. Devo ammettere che il
risultato fu al di sotto delle mie aspettative e così abbandonai per sempre la
scrittura dell’io, dopo che ricevetti il severo rimprovero dal mio amico Vincenzo
Consolo, uno degli ultimi grandi letterati italiani. Non mi sono mai
applicato a creare l’intreccio, rispettare i tempi che il genere “romanzo”
impone tassativamente. Nel 2016 ho pubblicato il memoir La Città e i libri. Avventure di un libraio,
che ricordava il mio apprendistato nel mondo della libreria; il memoir
inizia nel 1979 e si arresta al 1992. A quel titolo, nel 2017, se
ne affiancò un altro, Collezione privata.
Scrittori, persone e libri, un seguito con ricordi di persone e
intellettuali conosciuti o frequentati. Infine, nel 2019, ho ricordato
in Basco blu. Ricordo di Ubaldo
Mirabelli, il mio incontro con un grande intellettuale cittadino,
musicologo, critico d’Arte, un mito per molte generazioni di giovani.
Diventammo inaspettatamente amici. Preziosi furono i suoi consigli sui vari
aspetti della cultura. Questi tre titoli vogliono essere una testimonianza
dall’interno di un mondo, quello della libreria, poco conosciuto dal grande
pubblico.
Charles Bukowski, grandissimo poeta e
scrittore del Novecento, artista tanto geniale quanto dissacratore, a proposito
dell’arte dello scrivere diceva: «Non mi preoccupo di cosa sia o
meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o
funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia,
questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e
questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium:
Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October
31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie
abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è
scritta (il linguaggio utilizzato più o meno originale e accattivante per chi
legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski?
Difficile rispondere.
Analizzerei caso per caso. Ricordo una affermazione di un critico americano,
forse Edmund Wilson, ma non ci giurerei, il quale diceva in buona
sostanza che secondo la sua esperienza esisterebbero almeno tre tipi di
scrittori: quelli che sanno scrivere ma non hanno la storia giusta da
raccontare; quelli che hanno la storia ma non la sanno scrivere, e infine la
terza categoria, quelli che hanno la storia da raccontare e sanno anche
scrivere. Ma questi ultimi sono davvero pochi. A volte di un libro ci può
attrarre la storia ma meno la forma. Bisognerebbe essere nella mente del
lettore in quei frangenti. È il nostro gusto momentaneo che crea il libro. A me
è capitato spesso di rivalutare libri che avevo letto in cattività e di ridimensionarne
altri che mi avevano quasi abbagliato. Nell’atto della lettura conta sempre in
che stato psicologico ci trovavamo nel momento nel quale leggevamo. Questa è
una legge di natura.
«Quando la lettura è per noi l’iniziatrice le cui magiche
chiavi ci aprono al fondo di noi stessi quelle porte che noi non avremmo mai
saputo aprire, allora la sua funzione nella nostra vita è salutare. Ma diventa
pericolosa quando, invece di risvegliarci alla vita individuale dello spirito,
la lettura tende a sostituirsi ad essa, così che la verità non ci appare più
come un ideale che possiamo realizzare solo con il progresso interiore del
nostro pensiero e con lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di
materiale, raccolto infra le pagine dei libri come un miele già preparato dagli
altri e che noi non dobbiamo fare altro che attingere e degustare poi
passivamente, in un perfetto riposo del corpo e dello spirito.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”,
pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905). Qual è la
riflessione che ti porta a fare questa frase di Marcel Proust sul mondo della
lettura e sull’arte dello scrivere?
L’affermazione di Proust è tanto profonda che mi
astengo dal commentarla. Dirò solo che la lettura può essere un’arma a doppio
taglio, può essere un veleno e un controveleno; da un lato ci fa fare dei bei
viaggi fuori dal corpo fisico, ma dall’altro può sostituirsi alla vita reale e
ciò è pericoloso: insomma la lettura può avere effetti “ipnotici”. La
letteratura non può sostituire la realtà. Quanto a Proust, si riferiva a un
mondo che oggi non esiste più. Il suo saggio è del 1905, cioè scritto
più di cento anni fa. Tu sai benissimo che la lettura come atto ha riguardato e
riguarda tutt’oggi una minoranza. In Italia si legge poco, e pochissimo in
Sicilia. Le percentuali siciliane sono ferme agli anni ’60 del secolo scorso,
cioè il 5% del totale nazionale, laddove in Lombardia siamo intorno al 40%!
Comunque mi piace segnalare, a proposito dell’atto della lettura, una
affermazione dello scrittore angloindiano Salman Rushdie, il quale ha
detto che la “la lettura è l’incontro tra due sconosciuti”. Lettore e libro.
«Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera
dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al
lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe
forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust,
in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15
giugno 1905). Cosa ne pensi tu in proposito? Cosa legge il lettore in uno
scritto? Quello che ha nella testa “chi lo ha scritto” oppure quello che
gli appartiene e che altrimenti non vedrebbe?
Nell’atto della lettura agisce una sorta di automatico discernimento da
parte del lettore che a volte può trasformarsi in coautore. I veri lettori
sanno da subito individuare i punti di contatto con ciò che lo scrittore ha
disposto sulla pagina, con quello che lui lettore “vede”. Lo scrittore gli
potrà offrire le pagine più succulente, ma queste fin quando non verranno
“cotte e mangiate” dal lettore coautore, rimarranno pur sempre dei segni
grafici sulla pagina. È l’esperienza del lettore che determinerà il valore del libro,
non il contrario. Qualsiasi libro di per sé è “un’opera morta”.
«La lettura di buoni libri è una conversazione con i
migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una
conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso sul metodo”, Leida, 1637). Tu cosa
ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione
con chi lo ha scritto?
Sì,
può essere anche una “conversazione” come sostiene Cartesio. Ma il filosofo
parlava di “buoni libri”, e non sempre i lettori tengono in mano libri degni di
essere letti. Ad ogni modo, la lettura è stata e sarà sempre una pratica
imprescindibile della società. Anche se l’industria editoriale ha tragicamente
trasformato i lettori in “consumatori” di libri e ciò non giova né al libro né
tantomeno alla cultura in generale. I “buoni libri” invocati da Cartesio
latitano, dobbiamo ritornare ai classici. Bisogna tener presente che oggi il
libro è assediato da tanti nemici. Allo stesso modo lo è il lettore anche
quello più integro, perché sente il canto avvelenato di certe sirene che lo
vorrebbero fare spiaggiare verso altri lidi.
Nel gigantesco frontale
del Teatro Massimo di Palermo c’è una grande scritta, voluta dall’allora
potente Ministro di Grazia e Giustizia Camillo Finocchiaro Aprile del Regno di
Vittorio Emanuele II di Savoia, che recita così: «L’arte rinnova i popoli e
ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miri a preparar
l’avvenire». Tu cosa ne pensi di questa frase? Davvero l’arte e la bellezza
servono a qualcosa in questa nostra società contemporanea tecnologica e social?
E se sì, a cosa serve oggi l’arte secondo te, e l’arte dello scrivere in
particolare?
La frase di Finocchiaro Aprile
si può condividere, ma contestualizzandola poiché riflette un mondo e un modo
di pensare che non esiste più. Invece oggi un discorso sulla bellezza ci
porterebbe lontano. Comincerei col chiederti: quale bellezza? Quella del
principe Miškin dell’Idiota di
Dostoevskij cioè “la bellezza salverà il mondo?” O l’altra poniamo, del
mecenate messinese Antonio Presti il quale sostiene che la bellezza può
redimere e elevare persone che sono tagliate fuori dal sapere? Come vedi potrei
continuare con un nutrito elenco. Intendiamoci, sono tutte posizioni
rispettabili. Ma sospette. La verità è che spesso ci si trincera dietro parole
“chiave” per schivare temi più complessi, come appunto il concetto di bellezza.
Il tema del bello investe necessariamente l’arte. Mi chiedo: cosa c’entra la
bellezza applicata a un cavallo impagliato messo a testa in giù in un grande
stanzone spoglio alla Biennale di Venezia, visto tanti anni fa? Non so davvero
risponderti. Tutto è confuso. I “social” e le nuove tecnologie si sono
dati dei nuovi canoni di bellezza. Ma chi lo decide il canone? Presti? Sgarbi?
Bonito Oliva? È un circolo perverso, e vizioso. Un tempo l’atto artistico era
lungamente pensato. Flaubert per fare un esempio noto, impiegava settimane per
scrivere una pagina. Ecco, la bellezza è il risultato di quella applicazione
sulla pagina che ci ha lasciato lo scrittore francese. Oggi, mi dicono, che con
un telefonino si può fare un “vero” film e in pochi giorni. Mi sembra una cosa
lunare! Non so, mi sento inadeguato a risponderti, dovrei acquisire una
mentalità diversa… vedere la bellezza anche dove non c’è per darti una risposta
passabilmente sensata.
Quando parliamo di bellezza, siamo così sicuri che quello
che noi intendiamo per bellezza sia lo stesso, per esempio, per i Millennial,
per gli adolescenti nati nel Ventunesimo secolo? E se questi canoni non sono
uguali tra loro, quando parliamo di bellezza che salverà il mondo, a quale
bellezza ci riferiamo?
Sì,
è il cane che si morde la coda, per usare una battuta abusata, ma efficace.
Bisogna essere realisti: non si può pretendere da un ventenne di oggi chissà
quale educazione estetica. Un ventenne di oggi non dà nulla in comune con un
ragazzo che nel 1960 aveva vent’anni! Sono due mondi completamente
inconciliabili. Forse noi che imputiamo ai “millennial” scarsa sensibilità
verso il bello, avremmo bisogno di mettere a fuoco certi concetti, prima di
brandirli come una clava sulla testa quasi sempre vuota di bellezza, dei
recalcitranti ventenni d’oggi. Forse un “millennial” vedrà negli “influencer”
i portatori di bellezza. Certo, poi ci sono le felici eccezioni.
Chi sono i tuoi modelli, i
tuoi autori preferiti, gli scrittori che hai amato leggere e che leggi ancora
oggi?
Compilare liste non è
elegante, si corre il rischio di dimenticare nomi di peso, ma se proprio lo
devo fare, ti dirò che alcuni dei miei autori preferiti hanno i piedi piantati
nell’Ottocento. Una breve lista comprende Manzoni, Flaubert, Maupassant,
Dickens, Proust, Woolf, Hugo… sono quelli che hanno modellato il mio gusto. A
questi grandi nel tempo si è aggiunta una lunga fila di autori i cui nomi mi
piace segnalare perché ognuno di loro ha agito in me, lasciando un segno
indelebile: Gadda, Sciascia, D’Arrigo, Volponi, Bufalino, Consolo, Manganelli,
Parise, Brancati, Arbasino, Vittorini, Bonaviri, Ceronetti, Flaiano, Borges,
Joyce, Pasolini, Tomasi di Lampedusa, Moravia, Salinger. Per la saggistica:
Croce, Praz, Contini, Citati, Garboli, Sanguinetti, Calvino, Eco, Pedullà,
Onofri, Fofi. I poeti: Montale, Quasimodo, Caproni… Vado di corsa e dimentico
sicuramente scrittori di peso, ma lo spazio impone l’uso della ghigliottina.
Questi scrittori sono stati compagni di viaggio nel mondo della lettura. Ancora
oggi li rileggo con immutato interesse, ricavandone sempre nuove scoperte. Per
la letteratura siciliana di oggi vorrei segnalare tre scrittori: Fulvio Abbate,
Roberto Alajmo e Giorgio Vasta. E i critici letterari: Marcello Benfante,
Salvatore Ferlita e Matteo Di Gesù.
Gli autori e i libri che
secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri
lettori almeno tre libri e tre autori da leggere questa estate dicendoci il
motivo del tuo consiglio.
Questa è la domanda delle
cento pistole! Il primo libro che consiglierei è Madame Bovary di Gustave Flaubert, uno dei grandi testi della
letteratura di tutti i tempi. Cosa dire: confesso tutta la mia inadeguatezza a
parlarne, perché è un’opera perfetta che sfugge a qualsiasi catalogazione al di
là della vicenda narrata: infatuazione, adulterio, ritratto spietato della vita
di provincia ecc. Un caposaldo della letteratura; senza Madame Bovary non avremmo avuto né Proust né
tantomeno Joyce,
che gli sono debitori sul piano dello stile. Addirittura Proust scrisse un
saggio sullo stile di Flaubert, e questo dice tutto. Moravia ebbe a dire, a proposito
dello scrittore francese, che egli “con la sua mania di perfezione aveva ucciso
il romanzo come genere”, osservazione acuta. Grande è la mia ammirazione per Elio Vittorini, quindi non posso non
segnalare Conversazione in Sicilia, un
testo di imperituro fascino che ci proietta nel ventre anche “psicoanalitico”
di una Sicilia trasfigurata e mitica, povera, cupa e invernale, teatro della
vicenda, del “nostos”, ricca di archetipe figure come il “gran lombardo”
o la madre del protagonista Silvestro, Concezione, il cui ritratto di donna è
tra i più alti, vividi e riusciti, di tutta la letteratura italiana. Per
concludere, mi piace segnalare il memoir scritto da Roberto Alajmo, L’estate del ’78, edito da Sellerio nel 2018. Una dolorosa
indagine-confessione sulla scomparsa della madre. Un addio non previsto, improvviso,
che segnerà per sempre l’autore. Il tutto raccontato con rara perizia e pietosa
grazia. Ma se lo guardiamo in filigrana, questo lavoro è anche il ritratto di
una certa Palermo che non esiste più. L’opera narrativa più alta di Alajmo.
E tre film da vedere
assolutamente? Perché proprio questi?
Segnalare tre film è più
difficile di tre libri! Il cinema ha delle consonanze e delle assonanze con la
letteratura. Inizierei con il sommo Federico Fellini e il suo magnifico Amarcord. Chi di noi non si è
riconosciuto nella figura del protagonista Titta Biondi e in quel ricco
repertorio di figure, ricordi e immagini legate al borgo nativo? I temi
dell’adolescenza, le inquietudini, le solitudini, la scoperta del sesso, il
lungo inverno con la spessa nebbia che tutto avvolge come in un sogno: tutta
una materia che Fellini padroneggia con mirabile sapienza e accenti di vera
commozione. Amarcord è il film più
personale e intimo del regista riminese, un film che ha attraversato diverse
generazioni di spettatori conservando quella sublime grazia che lo ha reso
immortale. Altro regista che sento vicino al mio temperamento è Michelangelo Antonioni, il cui cinema attinge
molto alla letteratura. Della sua notevole filmografia mi piace citare La Notte, un vero caposaldo del filone
“esistenzialista”. Ambientato a Milano in pieno boom economico, racconta
l’irrompere di una nuova classe economica, quella dei nuovi ricchi. La
descrizione di certi ambienti sociali, la crisi della coppia, la noia,
l’incomunicabilità, la città notturna, sono tutti temi introspettivi cari ad
Antonioni, il quale sa governare con mano ferma una materia che tende
continuamente a deformarsi. Penso che chiunque potrebbe riconoscersi nella
coppia protagonista, Giovanni e Lidia. Il terzo film è una pellicola del
geniale regista giapponese Yasujiro Ozu, Viaggio a
Tokyo. Cosa dire di questo incantevole e al tempo stesso drammatico film?
Una coppia di anziani genitori, Shukichi e Tomi, si recano a Tokyo a visitare i
loro due figli. Ben presto però si accorgono che la città ha modificato i loro
costumi, e la frenetica vita cittadina li ha resi cinici e distaccati
affettivamente. Scontenti e delusi da questa amara sorpresa i due anziani
ritornano a casa, ma durante il viaggio, Tomi accusa un grave malore
costringendo tutta la famiglia a ritrovarsi unita intorno al suo capezzale.
All’atteggiamento cinico dei figli farà da contraltare la bellissima soave
giovane, Noriko, vedova del terzo figlio della coppia, morto durante l’ultima
guerra. Sarà lei a prendersi cura del vecchio capofamiglia Shukichi, spiazzando
tutti.
Quali
sono i tuoi prossimi progetti e i tuoi prossimi appuntamenti che vuoi
condividere con i nostri lettori?
Sto lavorando,
molto lentamente, a qualcosa che ruota intorno a Tomasi di Lampedusa, ma
non mi sento di precisarne la cornice. A fine anno uscirà una raccolta di
interviste da me curate, con alcuni intellettuali cittadini su svariati temi:
letteratura, storia, politica.
Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi
dire ai nostri lettori?
Vorrei concludere ringraziandoti per la squisita
disponibilità che hai mostrato verso il nostro lavoro e mi permetto di farlo
anche a nome di Mario Grasso, vero autore del libro. Ai lettori vorrei
consigliare che leggere questo libro può far scattare l’interesse per
affrontare l’Horcynus Orca, un
capolavoro della letteratura di tutti i tempi, che può segnare la carriera di
ogni lettore che si rispetti.
https://www.torridelventoedizioni.it/?s=cangelosi
Mario Grasso
https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Grasso
Link del libro:
Stefano D’Arrigo
http://www.treccani.it/enciclopedia/stefano-d-arrigo_(Dizionario-Biografico)
Andrea Giostra
https://www.facebook.com/andreagiostrafilm/
https://andreagiostrafilm.blogspot.it
https://www.youtube.com/channel/UCJvCBdZmn_o9bWQA1IuD0Pg