di Giuseppe Lalli - L’Aquila, capoluogo dell’Abruzzo, è da sempre la città dove l’acqua è di casa. Forse non tutti sanno che il nome stesso, ‘Aquila’, a dispetto di una diffusa opinione che vuole che provenga dal maestoso rapace simbolo imperiale del presunto fondatore, Federico II, deriva da “aquola”, che altro non è che il diminutivo della parola ‘acqua’.
Non a caso L’Aquila, un tempo ‘Aquila degli Abruzzi’ (l’articolo, fonte di
sgrammaticature, è stato apposto con regio decreto nel 1939, e avrebbe più
senso se riferito all’uccello), è la città della fontana delle novantanove
cannelle: novantanove – secondo la leggenda - come le piazze, le fontane, i
rioni che la compongono e i castelli che la fondarono.
L’Aquila, come è noto, è una “città di fondazione”, nata per il
concorso dei castelli disseminati su un vasto territorio; castelli i cui
abitanti, nella stragrande maggioranza, pur continuando a vivere nei villaggi
di provenienza (extra moenia), vollero lasciare all’interno delle mura
cittadine (intra moenia) un quartiere che, con una piazza, una
fontana e una chiesa, perpetuasse la memoria del borgo fondatore.
La città, come è noto, risale al XIII
secolo, allorché, volendo dare unità civica ai tanti castelli, i feudatari
imperiali della zona, in lotta contro Federico
II di Svevia (1194-1250) decisero di accogliere la proposta
di papa Gregorio IX (al secolo Ugolino dei Conti di Segni, pontefice dal 1227
al 1241), di creare un nuovo insediamento «ad
locum Acculae», vale a dire nei pressi dell’abitato di Acculae, un
piccolo centro ai piedi del versante settentrionale dell’attuale Monteluco,
luogo assai ricco di acque poco distante dal sito oggi occupato dalla
menzionata Fontana delle Novantanove cannelle, monumento-simbolo del
capoluogo abruzzese in tutte le guide turistiche e che in questi caldi giorni
d’estate, nonostante l’emergenza sanitaria, anzi forse proprio a motivo della
forzata clausura dei mesi passati, ha fatto registrare una grande affluenza di
turisti.
La nuova città sorse a partire dal 1254.
Appena cinque anni dopo, Manfredi
(1232-1266), figlio di Federico II e
di Bianca Lancia (incerti
i dati anagrafici) la distrusse, in quanto città di parte guelfa, cioè legata
al papa. Giova ricordare che dal secolo XII era iniziata la nota
contrapposizione tra il “partito” dei guelfi e quello dei ghibellini.
I guelfi, sostenitori, al contrario dei ghibellini, della supremazia del papa
nei confronti dell’imperatore, prendevano il nome da Welf,
capostipite del casato dei duchi di Baviera, in lotta contro gli Svevi
del casato di Hohenstaufen, (da cui era uscito Federico Barbarossa, nonno di
Federico II), che dal nome di un loro castello in Franconia si
denominavano signori di Waibling, anticamente Wibeling,
(da qui il termine italianizzato di ‘ghibellini’).
La città fu riedificata da Carlo d’Angiò (1226-1285) unendo
i due feudi di Amiternum e di Forconium (Forcona). Da allora
L’Aquila divenne sempre più grande e sempre più ricca, a motivo delle sue
industrie della seta, dei merletti, della lana, del cuoio e dello zafferano.
Questo notevole sviluppo economico fece da
sfondo ai molti monumenti di prestigio che sorsero entro le mura cittadine o
poco discosti da esse, quali le chiese di San Silvestro, del Duomo e di San
Bernardino, il Castello cinquecentesco e, sopra tutti, la magnifica
basilica di Santa Maria di Collemaggio. Quest’ultima, con la sua
meravigliosa facciata ricca di tre portali e tre rosoni e tappezzata di pietre
rosa e bianche secondo una sapiente geometria, con il suo interno luminoso e
mistico, è da considerare il tempio più rappresentativo di tutta l’architettura
abruzzese.
Fu edificata anche per volontà di quel Pietro da Morrone (1209/10-1296)
che vi sarà incoronato papa nel 1294 con il nome di Celestino V e che volendo legare in eterno il suo destino a
quella che considerava la sua città, sapendola dilaniata dalle lotte intestine,
le volle concedere quella Bolla della
Perdonanza, che da allora conserva valore universale di pace e di
perdono.