Raimondo
Rossi Raimondo Rossi, in arte Ray
Morrison,
fotografo, stylist e art director perugino: «Quando
scatto mi soffermo su ciò che la realtà mi offre in quel momento.
Annuso il punto in cui c’è una immagine che mi interessa cogliere.
… A quel punto creo un’altra realtà che è quella filtrata dal
mio punto di vista e dal mio stile fotografico.» di
Andrea Giostra.
Ciao
Ray Morrison, benvenuto e grazie per aver accettato il nostro invito.
Se volessi presentarti ai nostri lettori cosa racconteresti di te
quale artista della fotografia?
Buongiorno
e grazie per l’invito, felice di essere qui con voi. Per
presentarmi, direi che sono un fotografo alla vecchia maniera, di
quelli che cercano di condensare in un’immagine verità e
semplicità, permeate di estetica e intimismo.
Chi
è Ray Morrison nella sua professione e nella sua vita reale? Come ti
descriveresti a chi leggerà questa intervista per dare l’immagine
di te quale artista e uomo?
Non
c’è una grande differenza fra Ray
artista
e Ray
uomo.
In entrambi i casi e in ogni situazione riconosco di essere una
persona disponibile, pronta ad ascoltare e a creare delle belle
connessioni. Allo stesso tempo, sono abbastanza pignolo quando lavoro
e cerco di tenermi estraneo ai meccanismi di conoscenze e
favoritismi.
Come
è nata la tua passione per la fotografia, per l’arte in generale,
e quale il percorso artistico che hai seguito?
Quando
ero piccolo, i miei genitori mi portavano con il camper in giro per
l’Europa e mia madre si dilettava a scattare fotografie, che poi al
ritorno, una volta stampate, prendevano forma. Credo che il mio
interesse nell’arte fotografica sia maturato in quel momento.
Artisticamente, mi piace sperimentare. Oltre a qualche corso di danza
e di teatro ho seguito dei corsi di fotografia. Il colpo di fulmine
con la ritrattistica è scoppiato invece quando mi sono trovato nei
backstage
di moda a fare dei reportage.
Tu
Ray Morrison sei fotografo, ma anche stylist e art director. Come
vivi questa triplice identità artistica? Quali sono le
caratteristiche professionali di queste tue tre identità
professionali?
Si
tratta di tre identità che sono per me correlate al messaggio che
vorrei mandare. Sia nella fotografia che nello styling,
e anche nelle direzioni artistiche per editoriali e pubblicità, si
tende a credere che siano necessarie straordinarie competenze per
mettere in campo qualcosa di bello. Invece, in tutti e tre i campi,
non c’è bisogno di spendere cifre assurde perché la bellezza ha
bisogno di semplicità.
Quale
posto occupano nella tua vita professionale queste tre dimensioni che
si completano ma sono diverse tra loro?
In
ogni situazione cerco di rifarmi a tutte e tre le dimensioni. Per
esempio in fotografia, oltre al sapiente uso di luci e ombre si
decidono altre cose tra cui quale vestito o quale accessorio
indossare. In ogni scatto c’è styling
e direzione. Allo stesso modo quando si fa styling
si tende a prefigurarsi l’armonia finale. Quella stessa armonia che
ci si aspetta di ritrovare poi in una fotografia.
Come
definiresti il tuo stile artistico? C’è qualche fotografo al quale
ti ispiri?
Non
c’è nessun fotografo a cui mi ispiro. Ispirarsi ad altri fotografi
non è sempre un bene perché il rischio è di ricreare delle
immagini somiglianti ad altre già viste. Voglio che l’immagine
nasca dentro di me. Il fatto che “Fotografia
Moderna”
abbia rintracciato nel mio stile alcune caratteristiche di Avedon
ed altre di Richardson
non può che farmi un immenso piacere anche se non mi ispiro a
nessuno dei due. Trovo delle connessioni, più che altro mentali, con
Diane
Arbus.
Anche lei dava voce a tutti senza curarsi degli stereotipi. Forse,
rispetto a lei, tendo a dare maggiore spazio all’estetica.
Chi
sono secondo te i più bravi fotografi nel panorama internazionale e
nazionale, e perché proprio loro secondo te?
Per
me oggi i veri talenti sono quelli che riescono a fare tanto con
poco. E a creare cose nuove con poco. Per fare qualche nome, ci sono
degli scatti di Vallon
Julien
e di Micheal
Walker
che ho trovato molto interessanti. Lo stesso vale per il fotografo
indiano Supranav
Dash.
Con la sua arte riesce a prenderti la mano e a condurti nel suo
mondo.
Chi
sono stati i tuoi maestri che vuoi ricordare in questa chiacchierata?
Il
mio maestro principale è stato il campo. Mi sono trovato subito a
fare tanti backstage
di moda realizzando reportage per i siti web di un paio di riviste
londinesi. E lì ho capito che mi interessava molto la ritrattistica.
Ho seguito poi dei corsi con Michele
Cantarelli,
bravissimo fotografo umbro, che saluto caramente.
Perché
secondo te oggi, nel Ventunesimo secolo, l’arte della fotografia e
delle arti visive in generale sono importanti?
Perché
il mondo è diventato sempre più veloce e ci nutriamo di emozioni
trasmesse in un attimo. Così, arti visive e audiovisive acquisiscono
un potere grande.
A
proposito dell’arte della fotografia Alberto Moravia sosteneva che:
«Il
fotografo non guarda la realtà, ma la fotografa. Poi va in camera
oscura, sviluppa il rullino e solo allora la guarda.»
A quel punto la realtà non c'è più, ma c'è la rappresentazione
della realtà che ne ha fatto il fotografo. Se è vero quello che
disse Moravia, è come se il fotografo alterasse la realtà creandone
una tutta sua, una realtà parallela, virtuale per certi versi,
quella che sa creare con la sua arte. Qual è il tuo pensiero in
proposito? Cos'è la fotografia per te?
Sono
d’accordo con la seconda parte del concetto di Moravia. Mi spiego
meglio. Quando scatto mi soffermo su ciò che la realtà mi offre in
quel momento. Annuso, anche se fosse un ritratto, il punto in cui c’è
una immagine che mi interessa cogliere. Quindi direi che la guardo,
la osservo. Anche se non c’è più la camera oscura, guardo la foto
che ho scattato e decido quello che deve contenere, il punto di
vista, la gradazione di colori. A quel punto creo un’altra realtà
che è quella filtrata dal mio punto di vista e dal mio stile
fotografico. La fotografia si compone di pezzi di realtà.
Ritratto di E. Daniel |
Robert
Capa, com’è noto uno dei più grandi fotografi di guerra del
Novecento, diceva spesso che «L’unica
cosa a cui sono legato è la mia macchina fotografica, poca cosa, ma
mi basta per non essere completamente infelice.» Qual
è il tuo rapporto con la tua macchina fotografica? E cosa ne pensi
delle parole di Capa?
Non
ho un rapporto così forte con la macchina fotografica in sé e per
sé ma semmai con ciò che la macchina fotografica può darmi: uno
speciale rapporto con le persone, con altri essere umani, che possono
essere felici di essere catturati dal mio sguardo. E, visto che sono
una persona che si nutre di dialoghi e di momenti con altre persone,
gli attimi che la macchina fotografica mi dà, sì, è vero, possono
darmi tanta gioia.
«Le
arti visive, la pittura, la scultura, l’architettura, sono
linguaggi immobili, muti e materiali. Quindi il rapporto degli altri
linguaggi con questo è difficile perché sono linguaggi molto
diversi tra loro. Per cui c’è questa tendenza… non si capisce…
si può capire il motivo perché probabilmente vogliono un po’
sentirsi tutti artisti, pittori, non si sa perché… L’arte visiva
è vivente… l’oggetto d’arte visiva. Per cui paradossalmente
non avrebbe bisogno neanche di essere visto. Mentre gli altri
linguaggi devono essere visti, o sentiti, o ascoltati per esistere.
Un’altra cosa nell’arte visiva caratteristica è che non si
rivolge in particolare a nessuno spettatore, non c’è una gerarchia
di spettatori, ma sono tutti alla stessa distanza dall’opera. Non
ci sono gli esperti. Un giudizio di un bambino vale quello di un
cosiddetto esperto, per l’artista. Non c’è nessun particolare…
Anche perché non esistono gli esperti d’arte. Gli unici esperti,
veramente, sono gli artisti. Gli altri percepiscono l’arte, ma non
possono essere degli esperti altrimenti la farebbero, la saprebbero
fare.»
(Gino de Dominicis, intervista a Canale 5 del 1994-95). Parole di
Gino de Dominicis, grandissimo genio artistico italiano del secolo
scorso. Cosa ne pensi in proposito? Qual è il tuo pensiero a
proposito del valore delle arti visive e dell’arte fotografica in
particolare?
Queste
parole di De Dominicis mi trovano concorde in alcuni punti. Proprio
un paio di mesi fa, in un’intervista, dicevo proprio che un bambino
che posta le foto su Instagram deve essere rispettato come un
fotografo famoso e che nessun fotografo famoso deve ritenersi più
talentuoso di un bimbo. De Dominicis ricorda che il giudizio del
bambino è importante tanto quanto quello di un critico. Non posso
che essere d’accordo. Riguardo alle arti visive, credo che la
fotografia possa davvero parlarci. Uno dei complimenti più belli che
ho ricevuto è questo: “sembra
che le persone dei tuoi ritratti mi inizino a parlare, quando li
guardo”.
Le arti visive hanno ragione di esistere anche in rapporto alla
relazione che possono instaurare con gli spettatori. Anche perché,
se non portassero alcun beneficio nel mondo, non sarebbe un esercizio
sterile e che andrebbe a terminare con la morte dell’artista?
Certamente potrebbero avere una vita propria senza essere viste ma
sarebbe davvero un peccato. Riguardo al fatto che solo pochi possano
essere considerati artisti non sono d’accordo con la visione di De
Dominicis. Purtroppo ci sono tante persone che avrebbero potuto
esprimersi nell’arte, e che per situazioni particolari di vita si
sono trovati a dover prendere tutt’altra strada senza nemmeno
prendere atto delle loro potenzialità in campo artistico.
Esther |
Nel
gigantesco frontale del Teatro Massimo di Palermo c’è una grande
scritta voluta dall’allora potente Ministro di Grazia e Giustizia
Camillo Finocchiaro Aprile del Regno di Vittorio Emanuele II di
Savoia, che recita così: «L’arte
rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove
non miri a preparar l’avvenire».
Davvero l’arte e la bellezza servono a qualcosa in questa nostra
società contemporanea tecnologica e social? E se sì, a cosa secondo
te serve oggi l’arte, e l’arte della fotografia in particolare?
Credo
che l’arte possa rivelarci molto di un popolo. Tuttora, nonostante
la globalizzazione, ci sono delle differenze fra le arti visive
americane e quello europee, per esempio. Riguardo alla reale
efficacia e al potere dell’arte di cambiare il mondo o anticipare
nuove cose, si va a toccare un punto dolente che non cambia nei
secoli. Morrison (Jim) diceva che il mondo si divide in due, c’è
chi è nato per la luce e chi è nato per il buio. Cioè, c’è chi
è nato con una sensibilità tale da essere proiettato verso l’arte
e chi invece l’arte non la conoscerà mai. Purtroppo, le sorti di
un popolo dipendono da quegli uomini che sono portati a sbrigare
affari e a cui interessa poco o niente dell’arte. A volte l’arte
risulta confinata in un angolo.
Charles
Bukowski, grandissimo poeta e scrittore del Novecento, artista tanto
geniale quanto dissacratore, in una bella intervista del 1967 disse…
«A
cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere?»
(Intervista a Michael Perkins, Charles Bukowski: the Angry Poet, “In
New York”, New York, vol 1, n. 17, 1967, pp. 15-18). Tu cosa ne
pensi in proposito? A cosa serve l’arte?
Concordo
totalmente con Bukowski. Come ricordavo prima, l’arte aiuta a
vivere e nel mio caso mi ha aiutato ad instaurare bellissime
relazioni interpersonali. I ricordi compongono il puzzle della mia
vita e sono una prova della traccia su questa terra che tutti noi
siamo tenuti a rispettare.
Se
dovessi consigliare ai nostri lettori tre film da vedere, quali
consiglieresti e perché proprio questi?
Mi
vengono in mente tre film: “Un
posto al sole”,
“I
ragazzi della 56esima strada”,
“The
Mask”.
Il primo perché fa riflettere su quante tragedie possano avvenire se
non ci si forma come uomini adulti. Il film di Coppola invece è un
invito a “restare
dorati”
per tutta la vita. Solo per questo lo trovo magnifico. E The
Mask,
infine, perché fa sempre bene ridere e sbandierare un po’ di
positività.
E
tre libri da leggere assolutamente? Quali e perché?
“Il
codice dell’anima”
di Hillman.
È un invito ad ascoltare la propria anima per poter prendere
coraggio di fronte a decisioni importanti. Consiglio di leggere anche
“I
sonetti”
di Shakespeare
perché
leggere d’amore fa sempre bene. Un ultimo consiglio, “Meditazioni
sulla filosofia prima”,
perché Cartesio
è Cartesio e le sue disquisizioni sull’esistenza di Dio si
rivelano interessanti.
I
tuoi prossimi progetti e appuntamenti pubblici? Cosa ti aspetta nel
tuo futuro professionale che vuoi raccontarci e condividere con noi?
Se
trovo l’accordo con un magazine newyorkese, l’iniziativa più
interessante e pubblica che è in cantiere avverrà in “Books
a Million”,
una catena di librerie americana. Riguardo agli altri progetti, spero
di poter tornare presto a viaggiare perché mi aspettano anche al
Visual
Art Center
in Cina.
Dove
potranno seguirti i nostri lettori e come vuoi chiudere questa breve
chiacchierata?
I
social sono il canale più semplice dove potermi seguire. E dove
continuerò, per quello che posso, a infliggere duri colpi agli
stereotipi e alle discriminazioni. Concludo, dicendo che vi ringrazio
molto per questa splendida chiacchierata, per queste domande che ho
trovato interessanti, e per questo confronto su un mondo artistico
tanto caro e controverso. Grazie ancora, è stato un immenso piacere
poter parlare con voi e con te in particolare Andrea. A presto!
Raimondo
Rossi
Andrea
Giostra