di Mario Narducci - L’AQUILA - “Me
recunusci?” disse una voce stanca mentre due braccia si
protendevano davanti e l’uomo in pigiama mi veniva incontro. Il volto segnato dall’età
e la barba incolta di più settimane alimentavano la mia perplessità.
“Mi
riconosci?” insistette l’uomo, togliendosi il berretto di lana e tenendolo, il
capo chino, tra le due mani accostate al petto come accadeva un tempo con i
mezzadri alla visita del padrone. E lo riconobbi, allora, e di colpo mi
ritrovai nel vicolo della mia infanzia, in pieno centro storico, dove Spasimante abitava, solo ma parte viva
di un vicinato fatto di tanti disperati come lui, stipati in bassi umidi e bui,
al piano interrato di palazzi signorili.
Il colloquio che ne seguì mi raggrumò le viscere.
Decenni e decenni di lavoro rimediato non gli avevano migliorato di un’acca la
vita e lo straccio di pensione di vecchiaia che gli arrivava ogni mese, non gli
bastava nemmeno per riscaldare, d’inverno, il basso in cui ancora abitava. Io
mi trovavo lì, in un anfratto del corridoio del vecchio ospedale cittadino, in
visita a mio suocero ricoverato in geriatria.
“Stai bene?” gli
chiesi alludendo a una malattia che non conoscevo. “Benissimo”, mi rispose, sussurrandomi accortamente che lui si
trovava là per svernare. “Tutti gli anni
- continuò, felice di parlare con un ragazzo del vicolo della sua giovinezza -,
quando il freddo si fa più straziante,
vengo qui e mi faccio ricoverare. Capisci dottore, sono solo e la casa è
fredda, e qui anche da mangiare è buono, tre pasti caldi al giorno, curato e
servito come meglio non potrei desiderare, e mi conoscono tutti ormai e tutti
mi vogliono bene, perché io non ho mai fatto del male a nessuno e ho sempre
rispettato e voluto bene a tutti come fossero i fratelli che non ho mai avuto”.
Era il
tempo in cui anche gli ospedali, che non dovevano rispondere ancora alla logica
delle aziende, avevano un cuore pur se non giravano più per le corsie le
monache cappellone della carità, guardiane inflessibili del buon andamento dei
reparti e viscere materne di fronte al dolore diffuso che quotidianamente
dovevano alleviare. Quando anche nell’inverno successivo, ancora una volta mio
suocero dovette subire un ricovero, invano cercai Spasimante, svernato per sempre, seppi in seguito, là dove non
esistono più inverni gelidi e soprattutto agli ultimi viene assicurato di
diritto il pasto caldo della visione beatifica di Dio.
Spasimante abitava in un basso, ma la sua giornata la
trascorreva a Piazza Duomo dove
lavorava. La sua giornata incominciava all’alba, perché aveva un’occupazione
rimediata che non poteva aspettare. Non avendo acqua corrente, portava un
catino in mezzo alla strada, vi versava una brocca d’acqua tirata dalla conca
d’angolo, si insaponava le mani e se le portava, ripetutamente sbruffando, al
viso, con godimento se era la buona stagione, tra nuvole di vapore da fiato
caldo se l’inverno insisteva.
Gettata l’acqua sporca nel tombino, metteva i
soliti abiti sdruciti e sopra d’essi uno spolverino grigio da lavoro, calzava
una coppola di sghembo e, freneticamente ancheggiando in passi brevi, si
portava in Piazza, dove i postali scaldavano già il motore. Spasimante faceva il facchino, un
mestiere povero ma sicuro, a quei tempi, quando i bagagli non entravano in
corriera ma finivano tutti sul tetto della vettura, trattenuti da lunghe barre
perimetrali alle quali venivano assicurati con un intreccio sapiente di corde.
La stazione delle poche corriere stava allora, striminzita e caotica, dal lato
delle Anime Sante, la Chiesa sorta a memoria dell’apocalittico terremoto del
1703, a fianco del palazzo merlato, dal cui terrazzo veniva chiamata la tombola
durante le ricorrenze patronali.
E mentre tra la gente girava il venditore di
caramelle, con la sua cassettina di raccolta e di esposizione, Spasimante saliva spedito la scaletta
fissata sul retro del postale, scendeva ad uno ad uno i bagagli dalle corriere
in arrivo, saliva quelli delle corriere in partenza. Per ogni bagaglio una
mancia povera, tante mance, alla fine, che facevano una piccola giornata.
Bastevole a lui che si contentava di poco: un cappuccino con pasta, a
colazione, nel vicino bar, ricco degli umori dei venditori del mercato, un panino
farcito di mortadella per pranzo, una minestra ristoratrice alla sera,
preparata sul fornellino a gas, prima di prendere su un giaciglio di foglie di
“marrocchie” il sonno tosto che lo
avrebbe portato al giorno successivo.
Mai nessuno ha sentito Spasimante alzare la voce, né urlare contro qualcuno. La sua era
una gentilezza innata, accentuata da un portamento lieve e dalla parola
chioccia, accompagnati da un sorriso accondiscendente e da un lieve ammiccare
d’intesa che s’arrestavano lì, senza mai varcare il limite del buon garbo e che
gli avevano guadagnato un nome da sospiri lunghi.
Mi sono chiesto più volte quale sarebbe stato il
suo mestiere rimediato, oggi che i postali con il tettuccio portabagagli non
esistono più, soppiantati dai lussuosi autobus di gran marca, perfino a due
piani, che se vanno a Roma lo fanno
in autostrada, senza subire il martirio della vecchia Salaria, che nelle curve difficili costringeva gli autisti
a manovre da vertigini sugli strapiombi. Ma ogni tempo ha il suo volto e i suoi
personaggi che lo marchiano per sempre. Il tempo di Spasimante era quello dei bassi e dei postali che andavano a nafta
tra scarichi di nuvole nere, e che avevano bisogno di un uomo gentile e forte
come lui per tirare su bagagli, spesso colmi più di sogni che di vita degna.
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La foto è di Franco Nerilli:
Postali in Piazza del Duomo