di Nicola F. Pomponio - Il senso dell’ultima opera di Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale presso
l’Università di Perugia, è tutto contenuto nei due ordinali del titolo e del
sottotitolo.
L’idea della “terza età del mondo” come compimento della storia e
inizio di un regno dello Spirito, dopo quello del Padre (ebraismo) e del Figlio
(cattolicità medievale), in cui tutte le forme concrete della religione
cristiana si annullano in una fratellanza universale e nell’effusione del
Paraclito, venne proposta per la prima volta dall’abate Gioacchino da Fiore nel XIII secolo. Questo sogno gnostico-millenaristico
e il suo sviluppo nella riflessione occidentale è stato analizzato con acume e
profondità a tutt’oggi insuperata dal gesuita francese Henri De Lubac.
A partire da De Lubac, Borghesi
approfondisce la tesi della secolarizzazione come svolgimento dell’ideale
florense e quindi della modernità come sviluppo autonomo da un Cristianesimo
ereticale di cui mantiene, trasformandola, la promessa di realizzazione del
regno di Dio sulla terra. Il testo si sofferma così non solo sulle posizioni di
De Lubac ma anche su quelle, affini,
di Karl Loewith e su quelle
contrarie di Blumenberg. Per
Borghesi, al termine di una attenta e ponderata disamina delle posizioni di
questi autori (ma anche di Taubes, Voegelin, von Balthasar, Del Noce e altri)
si potrà parlare di secolarizzazione, in quanto “modello di salvezza affine a
quello cristiano proprio per potersi opporre ad esso … come metamorfosi della
gnosi e non già come traduzione secolare di contenuti cristiani”.
L’autore istituisce così un rapporto complesso e delicato tra Cristianesimo e modernità; il pensiero moderno nel suo movimento di
immanentizzazione di idee, concetti, attese, speranze cristiane incontra e
sviluppa temi gioachimiti ponendoli definitivamente al di fuori del contesto
cristiano. Il libro analizza meticolosamente i luoghi in cui anche piccole
variazioni di significato dei termini portano a sviluppi impensati e
importanti. Da questo punto di vista grande spazio è dato a un pensatore che non
è molto considerato, a torto, fondamentale nello sviluppo del pensiero occidentale:
Gotthold Ephraim Lessing.
Contrariamente alla ricostruzione di De Lubac, che nomina e analizza Lessing ma senza dargli un rilievo notevole, Borghesi individua in lui e nella sua ripresa del Vangelo Eterno,
ne “L’educazione del genere umano”,
un punto di svolta fondamentale nella storia della modernità. Quando Lessing, citando i “visionari del XIII
e XIV secolo” sostiene che “non erano animati da cattive intenzioni quando
insegnavano che il Nuovo Testamento doveva diventare altrettanto antiquato come
lo è diventato l’Antico” (paragr. 88), sta introducendo all’interno di una temperie
culturale al tramonto dell’illuminismo una visione storica ed escatologica che,
fatta propria dal nascente Romanticismo, segnerà una frattura fondamentale nello
svolgersi della modernità stessa.
Qui arriviamo all’ordinale del sottotitolo. Borghesi parla di “seconda modernità”.
Per l’autore la grande frattura della storia europea è rappresentata dalla Riforma Protestante, dalla rottura
della Respublica christianorum e
dalle conseguenti guerre di religione che insanguinarono il continente almeno
fino alla pace di Westfalia (1648).
Questa prima modernità, si noti che la periodizzazione di Borghesi è del tutto
analoga a quella utilizzata dallo storico Greengrass
ne “La Cristianità in frantumi”,
nasce da questioni interne al Cristianesimo
e non riesce a trovare soluzioni soddisfacenti nel Cristianesimo stesso, per
cui a partire dalla seconda metà del ‘600 e per tutto il ‘700 la riflessione
lentamente cambia portando dalla preminenza della discussione teologica a
quella della critica, sempre più corrosiva e scettica, del deismo e dell’illuminismo
nei confronti della religione.
Lessing si situa quindi
saldamente all’interno della seconda modernità (post Westfalia), ma al tornante
tra illuminismo e romanticismo. La sua visione storica
tripartita verrà sistematizzata e condotta alla più ammirevole coesione interna
dal panlogismo hegeliano. Borghesi
dedica molte pagine, con un interessante excursus sull’arte moderna, al
pensiero di Hegel, visto come il
punto più alto raggiunto dalla interpretazione trinitaria della storia a
partire da una cristologia che ha come approdo la trasformazione dello Spirito
(Santo) in Spirito (del mondo). Sono pagine di grande interesse dove l’autore,
con una sensibilità quasi sismografica, registra ogni più piccolo slittamento
nel significato e nell’uso dei termini dalla giovinezza fino alla grandiosa e,
per molti versi, inquietante sistematizzazione finale berlinese.
La fondamentale categoria hegeliana dell’Aufhebung (superamento) diventa in queste pagine lo strumento
principe con cui Borghesi analizza
la riflessione del filosofo sulla figura del Cristo, sul rapporto fede e filosofia e sul problema del male ma
ritorna qui la questione accennata fin dalle prime pagine: “la <teodicea>
hegeliana apre…le <porte degli Inferi>, legittimando nella cultura
tedesca dell’Ottocento, la positività del negativo” (p. 32). Questa analisi
così ricca di sfumature è la stessa che l’autore utilizza nei confronti della
sinistra hegeliana (di cui è ricostruita la parabola con un’attenzione rara
nella letteratura italiana) e di Marx di
cui emergono le dipendenze e le contrapposizioni (proprio perché ne dipende)
nei confronti non tanto di Feuerbach,
questione ampiamente acquisita e dibattuta negli studi relativi, quanto di Stirner. Sul rapporto Marx-Stirner e Marx-Nietzsche il testo ci porta al termine dell’Ottocento e lascia
intravvedere quelle tragedie novecentesche che in nome di un Terzo Regno (Drittes Reich) e di un Paradiso sulla
terra hanno realizzato le catastrofi più terribili della storia dell’umanità.
Di notevole interesse è anche l’analisi dedicata all’ideologia italiana da Mazzini a Mussolini posta in appendice al testo.
E’ evidente, da quanto fin qui scritto, che Borghesi si muove
in un ambito tutto interno all’Europa germanica. Ed è questa una scelta
senz’altro giustificata da un punto di vista sia storico, sia teoretico: non a
caso parla di “via tedesca alla modernità”. Eppure nella sua periodizzazione
storica, che come s’è visto è fondamentale nella ricostruzione dell’evoluzione
culturale occidentale, vi è un “sovrappiù” di significato che non deve
sfuggire. Parlare di due modernità non è qualcosa di legittimo solo per
l’Europa continentale. Se si allarga lo sguardo alle isole Britanniche non può
sfuggire quel movimento di evoluzione interno al protestantesimo di stampo
calvinista che, seguendo Weber e Troeltsch, dopo la Rivoluzione inglese
porta a un “neo-protestantesimo” e infine alla razionalità moderna. Un
“neo-protestantesimo” che spesso giunge ad esiti che ben poco hanno a che
vedere col pensiero di Calvino (come
notò lo stesso Weber) ma che da
Calvino prende impulso; un po’ come la riflessione hegeliana che da Lutero e attraverso Lutero si forgia
per giungere a esiti che hanno ormai pochi punti di contatto con Lutero stesso.
In ambito anglosassone il sogno gioachimita non sembra
svolgere un ruolo così importante come sul continente e, giustamente, nessuno
degli autori citati da Borghesi se
ne occupa. Vogliamo però evidenziare come nell’ambito di una Riforma non più legata al monaco di Wittenberg si prenda una
strada diversa che porta ad una diversa modernità, quella anglo-americana. Preme
quindi solo sottolineare come quella linea che De Lubac, attraverso infinite mediazioni, riflessioni, tradimenti e
approfondimenti pone da Gioacchino da
Fiore a Hitler (uno degli ultimi
paragrafi della sua monumentale opera s’intitola non casualmente “Da Marx a
Hitler”) è una possibilità di realizzazione del mondo moderno. Forse la più
inquietante, ma senz’altro non l’unica. Il libro di Massimo Borghesi contribuisce in modo pregnante a descrivere come
un aspetto della modernità si sia realizzato nella cultura dell’Europa
occidentale segnandone, talvolta tragicamente, il destino.