di Mario Narducci - Era fragile come un filo d’erba
delle sue montagne e candido come un bambino.
Tutto il contrario del nome che
gli era stato imposto al battesimo e che nell’originale nordico lo indicava
come “potente in battaglia”. Riziero
toccava sì e no il metro e venti di altezza. Girava per la città come una
nuvola bianca e ballerina, un camice da dottore stretto in vita da uno spago,
coppola lisa in testa e ampi occhiali da presbite sul minuscolo naso, che gli
gonfiavano gli zigomi come una lente d’ingrandimento.
Una voce potente e stridula lo
annunciava da lontano, e appariva come portato dal vento, non si sa da quale
direzione, per le vie del centro, una radiolina a transistor incollata
all’orecchio destro ad ascoltare musiche raschiate. La gente gli faceva largo oramai
distrattamente, abituata com’era a quella presenza usuale. Solo i ragazzini gli
si facevano attorno per giocare con lui, che riconoscevano dalla purità
dell’anima che somigliava alla loro, e dalla semplicità dei gesti, più
innocenti dei loro. Scherzavano insieme come fossero a cerchio sopra l’erba di
un prato anche se stavano ai Quattro Cantoni, e le risate si spargevano come
onde morbide al soffio di vento di ponente.
Lo vedevano da anni, ma sapevano
poco di lui, che era sempre uguale a se stesso ad ogni cambio di generazione. Veniva
da un paesino del circondario, dove non tornava più dalla prima giovinezza e da
dove lo avevano tratto per internarlo nel manicomio del Capoluogo. In quegli
anni Collemaggio, più che la
Basilica di Papa Celestino e della Perdonanza, stava ad indicare la casa
della follia, dove non solo i “matti” erano rinchiusi, ma anche coloro dei
quali ci si voleva sbarazzare, fosse solo per una bocca in meno da sfamare.
Forse quest’ultimo fu proprio il caso di Riziero, che da quel momento in poi
altra casa non ebbe, nemmeno quando la legge Basaglia svuotò i manicomi,
gettando a volte gli ospiti per strada.
Riziero era nato nel 1915. Era l’anno di inizio della Grande Guerra. Ma era anche l’anno del terremoto della Marsica con i suoi
trentamila morti. E aveva tre anni soltanto quando incominciò a diffondersi l’epidemia Spagnola che costò tra i
cinquanta e i cento milioni di morti nel mondo su una popolazione di circa due
miliardi: più della peste nera del quattordicesimo secolo che ispirò il
Decamerone a Boccaccio.
Non era nato sotto una buona stella,
Riziero. Che attraversò indenne tutte le tragedie dell’epoca, curvo sulla
colonna della iattura ad assorbire sulla schiena, che mai ebbe refrigerio, i
colpi del flagello di una vita. Che in realtà era un eletto da Dio, come lo
sono i matti per taluni popoli, perché preservato da tutte le brutture del
mondo.
Ma lui, tutte queste cose non le
sapeva. Sanno forse gli innocenti del male che li circonda e che li graffia? E
riconosce forse il vento, i volti che accarezza o gli alberi che scuote?
Riziero era insieme vento e volto, ed era pianta, alfine sradicata per legge da
quell’asilo di malati di mente cui in realtà non era mai appartenuto ma al quale
si era affezionato, perché l’unico che lo aveva custodito come in grembo
materno.
La Città divenne la sua casa nuova.
Con le sue piazze dove sostava in festa in cerchi improvvisati di ragazzi, con
le sue vie che percorreva con la radiolina a transistor sempre più gracidante,
con i suoi portici dove levava la voce alta e stridula al canto, con la sua
cerchia di monti dove invano gettava lo sguardo miope, con la felicità
inconsapevole del candore mai perso.
Egli appariva e spariva come una
nuvola. Era vento che giungeva da ogni direzione e per ogni direzione si
disperdeva. Era voce che stava su tutto e che taceva a notte, per risorgere al
mattino con il primo sole. Era risata che navigava nell’aria come un aquilone,
che non si perdeva nel cielo perché voleva restare sulla terra, retto da un
filo invisibile. Era un’anima persa ma mai sparita in una città che lo teneva
nelle mani a coppa dove, minuscolo, lui si dissetava, riempiendola, grato,
delle sue risa infantili.
Era novembre quando a notte alta, in
una desolata periferia, un’auto lo colse nell’attraversamento improvviso della
strada, scaraventando lontano la radiolina a transistor che in un singulto si
spense per sempre. “Sono un ciuccio,
disse un famoso professore ai funerali, ho imparato ben poco da Riziero.
Altrimenti avrei dovuto trasformare profondamente la mia vita”. Cosa
impossibile, se non si diventa nuvola, se non si diventa vento.