di Mario Narducci* - Non ricordava l’ultima volta che nevicò d’aprile. Da qualche
tempo, a pensarci, erano sempre di più le cose che ricordava vagamente o che
stava dimenticando del tutto.
Era come se ad un tratto dei suoi giorni, avesse
incominciato a prendere le distanze dal mondo che gli girava intorno. Lui
nemmeno se ne accorgeva: reiterava le domande, cantilenando, fino allo spasimo
altrui, s’acquietava, senza espressioni sul volto, alle risposte rassicuranti
dei famigliari e degli amici in visita, pareva appisolarsi sulla poltrona, il
plaid sulle ginocchia, fino a che non si destava con domande nuove, frammezzate
a lunghi silenzi.
La nevicata d’aprile lo colse davanti alla finestra. Aveva
lasciato la poltrona, senza un motivo. Vagò da una stanza all’altra con lo
sguardo fisso nel vuoto, si fermò dietro i vetri della sala buona, scostò le
tendine di merletto e restò investito da quella visione fuori tempo che
appariva come una grazia inconsapevole. La neve scendeva con leggiadria di
zucchero velato.
Non c’era soffio di vento ad arruffarla. Silenziosa cadeva
nel silenzio delle cose. Una musica non udita la trasportava come per una
danza. Non era frenesia di vortice ma un lento da ballare in coppia. La danza
sfiorava i mandorli della distesa che sembravano nuovamente fiorire;
accarezzava i narcisi rinati nel greppo roccioso dell’orto, respirava lungo il
filare della recintura, ischeletrito ancora, si acquietava sopra la terra
spoglia per ricominciare daccapo, senza fine.
Il suo fiato rendeva a tratti opachi i vetri. Lui vi passava
la mano sopra con movimento leggero, e sembrava essere tornato ragazzo, quando
su quelle opacità disegnava figure e lettere d’alfabeto per cancellarli subito
dopo, in attesa di nuovi sospiri. Improvvisamente, come sprazzo di sole
apparito tra una copertura di nuvole, un sorriso lungo gli aperse le labbra
serrate. Gli risero gli occhi ridiventati vivaci e tutto un mondo lontano gli
passò davanti con frenetica dolcezza.
Nevicava anche allora. Sua madre continuava a sferruzzare per confezionare maglie di lana, guanti e calzettoni lunghi per il lungo inverno. Si rivedeva chiaramente. Maglione di lana. Sopra i calzoni corti un cappottino di panno grigio. Scarponcini fatti su misura, come si usava allora, dal calzolaio di famiglia, con lunette e chiodi per arginarne il consumo e impedire dannose scivolate. Una sciarpa attorno al collo, annodata davanti perché lo tenesse più caldo.
Si vestiva così, d’inverno, sotto la neve che scendeva
abbondante. Si doveva salire sui tetti per spalarla sulla strada e scongiurarne
il crollo. C’era una foto di suo padre custodita nell’albo, a ricordarlo. Uno
scatto solo, nella pausa tra un colpo di pala e l’altro. Era appoggiato sul
manico, a braccia incrociate, alla stregua dei pastori che attendono al gregge
al pascolo, con la pazienza del tempo dilatato che egli stesso aveva
sperimentato da ragazzo.
Quante volte gliene aveva parlato suo padre. Quelle giornate
che non finivano mai, il pasto frugale tirato fuori dalla sacca di tela, pane e
formaggio, ed era già un lusso, innaffiato dall’acqua delle Cupelle. E tra le
ore i canti dei classici mandati a memoria. Gli stessi che da adulto ripeteva
ai figli, narrando le gesta di Orlando o ricordando Pia de’ Tolomei, esiliata
entro una torre, in maremma, dalla gelosia ingiustificata del marito e morta di
struggimento.
Ora la neve s’era fatta più intensa, i fiocchi erano
diventati farfalle, come quelle che s’accumulavano lungo le vie e sopra la
scalinata di san Bernardino quando andava alle elementari, all’Aquila, e
prendeva a tirare palle di neve con i compagni di scuola, dopo aver giocato
alle impronte, sdraiandosi sopra tutto quel candore, incurante dei vestiti
intrisi e delle infreddature.
Sorrise rivedendosi con i calzoni corti. Allora si portavano d’estate e d’inverno e a quelli lunghi si accedeva solo al primo anno delle Superiori. Questo particolare lo aveva sempre divertito, nella pienezza della lucidità. Il freddo ci ha temprati, diceva con orgoglio ai figli, nella casa riscaldata all’eccesso. E anche adesso si rivedeva in quella foggia, come per la prima comunione quando vestito di bianco fu portato con il fratello nella piazzetta dei Nove Martiri per la foto ricordo. Anche quella foto è nell’albo, la giacca tanto lunga che copre i calzoncini troppo corti sopra le ossute ginocchia. Era felice, pensò, come non lo era più stato.
Improvvisamente fece memoria di quanto una santa monaca gli
disse decenni più tardi. La felicità è uno stato transitorio. Attimi interrotti
dal dolore. E’ la beatitudine che dura per sempre, perché è quiete dell’anima
che viene da Dio e vive di innocenza. La neve d’aprile non cadeva più. L’uomo
si scosse di colpo, il suo volto allontanò ogni cenno di sorriso. Tornò a sedere
in poltrona, il plaid sulle ginocchia. Gli altri non lo sapevano, ma era beato.
*giornalista e
scrittore