di Daniela Lelli - Il
turno di notte sconvolge sempre il mio equilibrio, non riesco mai a
recuperare il sonno perso. Di solito l’ora tragica, se non ci sono
emergenze, corrisponde alle 4-5 del mattino, quando vorresti avere a
disposizione un letto per tuffarti dentro anche tutta vestita.
Durante questi momenti mi riprometto sempre, una volta arrivata a
casa, di andare subito a dormire, ma poi passa l’ora critica, do le
consegne alla collega, prendo il caffè ed ecco che d’incanto mi
passa il sonno.
L’aria
del mattino contribuisce alla ripresa e anche se mi impongo di andare
a letto una volta arrivata a casa, il disordine lasciato dai miei
figli mi dà la botta finale e il risveglio è totale, come se avessi
dormito ore e ore. Tutto va bene se il giorno dopo sono di riposo ma
se devo fare l’altro turno di notte è tragico, cerco di riposare
nel pomeriggio, anche se sobbalzo ogni tanto per l’eccessivo rumore
che fanno i bambini. I miei pensieri vengono distolti dal suono del
campanello e sorrido nel vedere illuminato il numero della camera 12
occupata dalla signora Maria, una dolce e bisbetica vecchietta…
Sapevo che prima o poi mi avrebbe chiamata.
Con
la scusa di un dolore immaginario mi vuole per chiacchierare, io
l’accontento sempre, dopo tutto cosa mi costa e poi mi fa piacere
esserle di aiuto, sapere che dopo una breve conversazione si
addormenta tranquillamente.
-
Buonasera signora Maria, come ha passato la giornata?
-
È venuto mio figlio -mi dice sorridendo-
-
Bene, sarà certamente contenta
-
Per niente -dice assumendo la sua caratteristica espressione da
vecchietta bisbetica- è venuto con mia nuora. Pensa mi ha salutata
appena, sembrava stesse facendo uno sforzo enorme a rimanere qui.
-
Forse è stata solo una sua impressione, perché non cerca di vedere
il lato positivo? È venuta e questo dovrebbe rallegrarla.
-
Per niente! È antipatica, si crede la principessina sul pisello,
deve ringraziare Dio di aver trovato un marito come mio figlio, cosa
che non faccio io perché avrei voluto un’altra moglie per lui.
-
Mia cara signora, spesso quello che vogliamo noi è diverso da quello
che vogliono gli altri. Sicuramente in quella ragazza suo figlio ha
trovato delle doti che lei non vede, pensi solo che sono felici
insieme e poi non mi ha detto lei stessa che è molto indaffarata per
i preparativi del matrimonio di suo nipote?
Ed
ecco che al ricordo di questo evento il viso della signora Maria si
rasserena di nuovo: lei adora suo nipote.
-
Ora cerchi di riposare, deve riprendere tutte le forze perché il
giorno del matrimonio dovrà essere in forma.
-Speriamo
-risponde lei- sono un po’ preoccupata per il vestito, sicuramente
mi andrà largo, sono dimagrita tanto, io non capisco perché averlo
voluto comprare eccessivamente in anticipo.
Chiaramente
il rimprovero è rivolto alla nuora, ma faccio finta di niente per
evitare di riaprire il discorso, poi le do la buonanotte ed esco,
spegnendo la luce e socchiudendo la porta. Sorrido, so che ora si
addormenterà, tanta era la voglia di raccontarmi che era arrivato il
figlio che non si è lamentata dei dolori e non mi ha chiesto niente
per alleviarli.
Faccio
il giro delle camere, controllo se tutto è a posto e ritorno in
medicheria. Il collega che fa lo stesso turno con me è nell’altra
camera e vede la televisione, mentre io cerco di dare una riordinata
ai carrelli della terapia. Ben presto cambierò reparto, ho vinto il
concorso da caposala e svolgerò questo nuovo ruolo in un reparto di
lunga degenza. Ne sono contenta e non vedo l’ora che passino questi
giorni, un po’ perché finalmente avrò dei turni più regolari, e
poi perché potrò finalmente cambiare alcune cose che a mio avviso
non vanno bene. Sono sicura che ne avrò sia le competenze che le
capacità giuste. E poi ho l’appoggio del capo personale che è
d’accordo su come intendo gestire il reparto, del resto è stata
discussione di tesi in sede di esame e credo siano state le mie idee
innovative a farmi vincere a pieni voti il concorso.
Sono
dieci anni che lavoro come infermiera e ho cercato sempre di
migliorarmi. Credo in quello che faccio, ma soprattutto credo che non
sia un lavoro che si possa improvvisare. Sei spesso portata ad
affrontare turni estenuanti, situazioni delicate dove devi cercare di
tenere a bada la tua emotività dando spazio solo alla tua
professionalità. E’ un lavoro che devi sentire dentro, in quanto
oltre alla tecnica devi avere la capacità di comprensione empatica
che certamente non ti puoi inventare. La devi avere dentro. Ecco il
motivo che mi porta spesso a non essere d’accordo su alcuni
comportamenti superficiali di colleghi che non so per quale strana
magia sono riusciti a prendere il diploma di infermieri.
Come
sono arrivata a capire che volevo fare l’infermiera? Non sempre la
scelta avviene perché hai un esempio da seguire, perché vieni
consigliata dai tuoi genitori o perché è la tua unica alternativa
di lavoro. No, non sempre è così. A volte ci arrivi per esperienza
diretta, a seguito di una sofferenza profonda che ti porta a capire
chi sei e cosa credi di poter essere e di poter dare. Mentre rifletto
finisco di lucidare il carrello delle medicazioni, metto in ordine i
farmaci e poi mi siedo in poltrona. Già, cosa mi ha spinto a
diventare infermiera. Ricordo tutto come se fosse ieri. Del resto ci
sono cose della tua vita che, per quanto tu voglia cancellare o
chiudere in un cassetto, ritornano sempre alla mente, a volte come
dei flash back, come a ricordarti la dura battaglia affrontata, come
a ricordarti di non arrenderti mai…
Non
ricordo di essere mai stata una bambina spensierata e serena.
Fin
da piccola soffrivo per il mancato rapporto con i miei genitori, per
il loro egoismo e la loro poca attenzione ai miei bisogni,
soprattutto affettivi. Giocavo
sempre
con mio fratello e i suoi amichetti e per questo ero definita da mia
nonna, che viveva con noi, “un maschiaccio”.
Lei
adorava mia sorella, di cinque anni più piccola di me, tollerava mio
fratello,
non sopportava per niente me. Venivo continuamente punita ed oggi
posso dire che lo faceva anche per stupidaggini. La sua punizione
preferita
era quella di chiudermi in uno stanzino, dopo avermi picchiata con un
cucchiaio di legno.
Mia
madre era sempre al lavoro con mio padre e mi mancava tantissimo.
Negli anni, poi, ho capito che la sua scelta di vita non è stata per
un’esigenza di lavoro, ma per una sua incapacità ad assumere il
ruolo di mamma. E’ stato molto più facile seguire come un’ombra
mio padre, accudendolo come un bambino, il suo unico bambino esigente
e capriccioso. Mio padre: un uomo egoista ed egocentrico che ha fatto
delle sue esigenze, di ogni genere, unica essenza della sua vita,
avendo la capacità di sopprimere totalmente le personalità di chi
avrebbe dovuto amare: i figli.
A
diciannove anni, dopo numerose diete riuscite e non, con un
inesistente rapporto con i miei genitori e una profonda solitudine,
decisi che non era più il caso di andare avanti. Mi procurai, con
una ricetta sottratta a mio padre, dieci confezioni di sonniferi.
Ricordo perfettamente il giorno che le tenevo nascoste tutte nella
borsa e in pullman mi dirigevo verso il posto che avevo scelto con
cura per attuare il mio proposito. Ero convinta che di sera nessuno
mi avrebbe trovata in quel luogo sperduto, ma non avevo fatto i conti
con una coppietta che si era accorta di me nascosta tra gli scogli,
addormentata per effetto dei farmaci, quasi del tutto in acqua;
mancava poco che annegassi. Ricordo ancora oggi lo stato d’animo
che avevo quando ero su quel pullman: ero serena, mi sentivo per la
prima volta in pace. Sapevo che presto tutto sarebbe finito e questo
mi dava un grande senso di sollievo. Quella morsa che mi contorceva
lo stomaco era scomparsa, i continui pensieri che mi torturavano la
mente avevano cessato di esistere. Ero finalmente libera.
Quando
mi sono risvegliata c’è voluto un po’ per capire dove mi
trovassi. Ero in rianimazione, sono stata in coma per tre giorni.
Nessuno sapeva niente di me, non avevo documenti e nessuno aveva
denunciato la scomparsa di una ragazza con le mie caratteristiche. I
miei genitori avevano pensato che me ne fossi andata e se era quello
che volevo non avevano niente da obbiettare. Io non rispondevo alle
domande dei medici, della polizia, non mi interessavano, non mi
interessava nessuno, pensavo solo a quello che non era successo, al
perché. Mi sentivo avvolta da un alone che mi distanziava da tutti e
da tutto ciò che mi circondava. L’unico che non ha mai creduto a
una mia fuga è stato un amico di mio fratello che, conoscendomi,
sapeva che non l’avrei mai fatto senza salutarlo. E così convinse
gli altri a cercarmi.
Quando
vennero i miei a prendermi in ospedale non fui felice, perché
realizzai che tutto stava per ricominciare. Poi seppi da mio padre
che il giorno dopo sarei andata in un posto tranquillo. Loro avevano
già programmato una crociera e non potevano lasciarmi a casa da
sola. A me andava bene tutto, purché lontano da loro. Ben presto mi
resi conto che quello che loro chiamavano “bel posto” era un
Istituto Psichiatrico. Sono stata ricoverata in un reparto che
chiamavano infermeria, dove erano ricoverati i casi meno gravi, più
gestibili: demenze senili, schizofrenie in trattamento, forme
maniacali di vario tipo. E c’era una folle che aveva tentato il
suicidio e non aveva più voglia di vivere.
Il
mio arrivo fu accolto con molta curiosità: mi guardavano con
insistenza, alcune mi toccavano ed altre mi facevano continuamente
domande, sempre le stesse. Ero seduta a terra in veranda e non mi
facevo toccare da nessuno e in quella posizione mi addormentai. Solo
la suora, verso sera, riuscì a portarmi a letto. Un letto in un
enorme camerone dove dormivano altre sette pazienti, o meglio non
dormivano. Le notti le passavo sveglia con la paura che qualche altra
paziente si avvicinasse e mi toccasse, come di solito facevano
durante il giorno. Ma la luce del giorno mi dava la sensazione di
riuscire a difendermi, mentre il buio della notte no, mi lasciava
completamente indifesa e spaventata da ciò che non sapevo.
La
suora del reparto era tanto dolce con me e la ricordo ancora con
tanto affetto. Durante i pasti, avendo colto il mio disagio, mi
faceva mangiare in una stanzetta adibita ai suoi lavori di cucito.
Questo perché non riuscivo a mangiare insieme alle altre pazienti,
in quanto alcune mangiavano con le mani e se qualcuna si arrabbiava,
versava tutto sul tavolo e sputava. Insomma, non era facile accettare
tutto quello che vedevo. Quando non c’era il dott. Eugenio, medico
del reparto, passavo le mie interminabili giornate in veranda
guardando giù in cortile. Affacciava sul reparto degli agitati ed io
osservavo quelle donne e quegli uomini, divisi da una rete metallica.
Se si avvicinavano tra loro, agitandosi e facendo gesti sconci, un
guardiano (alias operatore) era pronto ad intervenire con una pompa,
bagnandoli con acqua fredda. Spesso mi domandavo se anch’io, un
giorno, sarei andata a finire in quel reparto, comportandomi come
loro, se anch’io un giorno sarei stata trattata in quel modo
disumano.
Il
dott. Eugenio cercava di scuotermi, di farmi parlare, di farmi uscire
da quel guscio nel quale mi ero rinchiusa. Con il passare delle
settimane e con il suo aiuto ho iniziato piano piano a guardarmi
intorno con meno diffidenza. Ho iniziato ad osservare con più
interesse ciò che mi circondava. Mi ricordo di Franca, una ragazza
schizofrenica, che passava quasi tutto il giorno a cantare,
incitandomi continuamente a farlo con lei. E dato che innervosiva le
altre pazienti, veniva continuamente messa a tacere dalle operatrici
anche in malo modo. Allora si sedeva vicino a me in veranda e cantava
sottovoce. C’era una donna della quale non ricordo più il nome, mi
chiedeva spesso di leggerle il suo libro, porgendomi le mani vuote.
Io non sapevo cosa dire e lei si arrabbiava. Quando ho imparato a non
avere più paura di lei e mi chiedeva di leggere il suo libro,
bastava che le dicessi qualsiasi cosa e lei andava via tutta felice.
Ed
ecco il ricordo di Carolina, che sembrava una piccola monella
cresciuta e faceva quello che non doveva fare, compreso spogliarsi. E
poi ti guardava sorridendo, tutta felice, proprio come fanno i
bambini. Fu proprio lei a farmi ridere per la prima volta. Dopo
averne combinata una delle sue, l’operatrice e la suora cercavano
di prenderla, ma lei si nascondeva dietro qualsiasi cosa e ridendo
diceva “cucù, dove sono?” Questo trambusto fece innervosire
alcune pazienti. Così Carolina, messa alle strette e non sapendo più
dove nascondersi, quella volta prese la sua scarpa, se la mise
davanti agli occhi e ridendo disse “cucù, dove sono?” Io iniziai
a ridere fragorosamente e tutte le altre con me, compreso la suora,
allentando così la tensione che si era venuta a creare.
Con
il tempo ho realizzato che a loro bastava poco, una parola dolce, un
sorriso, una carezza, un po’ di attenzione. Ho realizzato che non
bisognava aver paura di loro, in quanto non si può avere paura di
chi soffre, e che l’alternativa all’aggressione è la
comprensione. Quelle persone tanto sfortunate, avevano bisogno di
avere al loro fianco persone professionalmente capaci e dotate di una
grande carica di umanità. Loro avevano capito che ero cambiata, si
avvicinavano senza avere più il timore di spaventarmi, di
disturbarmi, non mi chiedevano più scusa quando si avvicinavano. Per
Franca ero diventata la sua dottoressa.
Passavo
molto tempo con il dott. Eugenio, lui voleva che uscissi al più
presto da lì. È stato fin dall’inizio contrario al mio ricovero,
ma quando realizzò che, comunque, per me ci sarebbe stato solo un
Istituto Psichiatrico, preferì tenermi con lui. Dopo quasi cinque
mesi sono uscita e si sono chiusi i cancelli alle mie spalle, ma ho
iniziato di nuovo ad avere tanta paura. Ormai lì mi sentivo al
sicuro, protetta, tante persone credevano in me, persone diventate
amiche. Come potevo ritornare in quel mondo ostile? Eppure il dott.
Eugenio mi ha catapultata fuori perché era ora che affrontassi il
mondo esterno, più rimanevo e più sarebbe stato difficile uscire da
quel mondo che mi stava proteggendo.
I
primi giorni sono stati difficilissimi e mi chiedevo perché, mi
sentivo abbandonata non sapevo cosa fare. Poi ho iniziato a pensare a
loro e ho capito che non mi dovevo arrendere, che il mio nuovo
percorso di vita stava incominciando proprio in quel momento e che
dovevo assolutamente prefiggermi un obbiettivo importante per me e
per tutti quelli che avevano creduto in me. Così mi iscrissi al
corso di infermiera professionale. Questa scelta, in un momento
particolare della mia vita, non è stato un rifugio alla sofferenza,
ma una decisione ben ponderata, un obbiettivo da raggiungere,
consapevole di quello che dovevo fare e come avrei dovuto farlo.
Chiudo
il cassetto dei mie ricordi e con un sospiro ed un sorriso rispondo
al mio collega accettando la tazzina di caffè che mi sta offrendo.
-
A cosa stavi pensando? -mi chiede- sembravi in trans, ti ho dovuto
chiamare due volte, mi stavo quasi preoccupando.
Lo
guardo e gli sorrido.
-
A un pezzo della mia vita -gli rispondo.
-
Deve essere stato qualcosa di veramente importante.
-
Sì, è stato l’inizio della mia vera vita…
Guardare
avanti oltre quel muro che sbarra i tuoi pensieri non è facile, dare
una risposta alle tue mille domande è quasi impossibile, perché
alla fine ti rendi conto che molte domande non hanno risposta. Ti
rendi conto che il dolore è tuo, non è condiviso, non è capito,
non è accettato. Io ho avuto la possibilità di vedere quella lucina
accesa che ne ha illuminato il sentiero. Ho avuto la fortuna di
vedere e sentire il calore di tante mani tese, quelle mani che di
solito ci sono, ma che a volte non vediamo perché sprofondati nel
nostro stesso dolore. Ecco che quelle mani tese mi sono servite per
rialzarmi, uscire, camminare e accettare una realtà che solo io
potevo modificare. Perché era… la mia vita.