RACCONTO di Roberto De
Giorgi
Sono già a letto quando mia moglie mi
dice: «Non coricarti, vai a buttare la spazzatura, che fra un po’ passano a
ritirarla.»
Riluttante, mi
rivesto e scendo in un borgo di Taranto che alle 21,30 è già spento da un
pezzo; alcuni tratti di strada, durante l’imbrunire, non si accendono più da diverso
tempo e restano con quella luce diafana che incute paura. Quella stessa paura
che deve aver preso due adolescenti che giorni fa hanno bussato alla nostra
porta per timore di un bruto che le aveva seguite con l’auto. Poi la vicenda
del coronavirus ha creato davvero un coprifuoco.
Butto l’immondizia
in un cassonetto che tracima e raggiungo di nuovo e velocemente il portone e mi
accorgo che la porta gira.
“Una porta
girevole”, penso, “non me n’ero accorto prima”. Salgo le scale, non più di
corsa per via dell’età e quando arrivo alla porta noto che è scomparso il buco
della serratura. Al suo posto c’è un cerchio luminoso con l’immagine di un
dito. Poggio il dito sopra la luce e una voce metallica automatica strilla:
“sconosciuto”.
A questo punto, una
voce femminile dall’interno urla: «Ma chi cavolo è a quest’ora!»
Sono in preda al
panico, tremo in tutta la persona e dico solo con voce palpitante: «Amore, non
scherzare fammi entrare».
«Amore? Entrare?
Ma lei è impazzito, ma chi è? Ora chiamo la Spartan Police».
Davvero non
capisco cosa stia accadendo. Scendo e risalgo più volte, immaginando di aver
sbagliato, esco e guardo il palazzo e la strada, ma è tale l’agitazione che non
m’accorgo di alcuna modificazione del paesaggio, piuttosto noto quella porta
girevole che ha bordi luminosi, risalgo stavolta lentamente e alla fine m’accascio
sulle scale, là, vicino alla porta.
La voce dal di
dentro l’appartamento si è ora fatta più dolce: «Lei è ancora qui, ma che vuole
da me?»
Dico il mio nome
e confermo di abitare lì. Queste parole hanno il potere di far aprire la porta
che fa uno scatto, come se fosse una cassaforte.
Una figura
giovane, esile, mi dice: «Entri, signore, non mi faccia del male».
La casa è
cambiata, non la riconosco più, il soffitto a volta è illuminato da figure in
movimento, come in un cartone animato, la ragazza vede il mio aspetto distrutto
e mi fa sedere. Lei però è all’interno di un’area ovale luminosa.
«E’ la difesa
antiviolenza», mi dice, leggendo il mio pensiero.
Mi osserva con
tenerezza e mi dice ancora: «Senta, la mia famiglia abita in questa casa da 25
anni, mia madre l’acquistò da una famiglia americana e mi disse che erano
tarantini espatriati dopo cinque anni che lei, o meglio uno con il suo nome, era
sparito. Ho aperto perché ho sentito parlare molto di lei, quando ero bambina».
Io la guardo
stralunato senza fiatare. Non faccio in tempo a risponderle che sento una
sirena, guardo di nuovo la ragazza e le dico: «Ha chiamato la polizia?»
«Per il suo
bene, la vedo smarrita, non so chi sia davvero, l’aiuteranno loro».
Una poliziotta,
con un grande simbolo di Sparta sul petto, entra e mi dice con voce decisa:
«Venga con me,
non importuni di più la signora».
Mi porta via
aiutata da due robot poliziotti che mi sollevano dalle braccia. Un’auto, tutta
di plastica trasparente, come un gigantesco drone, è già pronta sul tetto; vi
entro dentro e subito si vola in modo silenzioso.
Arriviamo ad un
posto di polizia, sempre attraverso l’atterraggio morbido su un tetto e mi
portano, sempre sollevato dalle braccia, fino ad una stanza dove ci sono un
poliziotto e un uomo in camice bianco. Quando entro mi fanno sedere e il
poliziotto mi mette un aggeggio davanti agli occhi.
«Ma chi è lei? Non c’è riconoscimento
facciale.» Sbotta il graduato guardando l’uomo in camice.
Io sono in
fibrillazione ma ho la forza di urlare: «Ho la carta di identità elettronica!»
Così facendo
prendo il portafoglio, la tiro fuori e gliela mostro. Quello se la gira in mano
e dice:
«Non l’ho mai
vista ‘sta carta in circolazione; a casa in un cassetto ho quella di mio padre.
Egregio signore sono 20 anni che abbiamo il riconoscimento facciale di identità
e lei non esiste.»
Poi guarda la
data di nascita e riprende:
«Qui poi c’è
scritto che lei è del 1953 e quindi ora avrebbe 97 anni, mentre se la osservo presso
a poco mi pare un sessantenne».
A questo punto
anche l’uomo col camice interviene.
«Collega, se ha
la carta elettronica ci sarà l’impronta digitale - sempre se gliel’hanno fatta
-, perché la gestione dei comuni di allora lasciava a desiderare».
«Sì, me l’hanno
fatta!», dico subito io, che della vicenda ho un ricordo recentissimo e avverto
l’urgenza di uscire dall’imbarazzante situazione. A questo punto i due mi conducono
davanti ad uno schermo e mi fanno poggiare la punta dell’indice. Sullo schermo
appare il mio volto, articoli di giornali, vecchi video di “Chi l’ha visto?”.
I due mi
osservano con insistenza, poi parlano a lungo fra di loro. Li osservo mentre
gesticolano, indicando le immagini che scorrono, i video. Alla fine quello in
divisa viene da me e mi dice:
«Vada pure, non
la tratteniamo, dobbiamo studiare il suo caso, ma non scappi, tanto è
localizzato di continuo».
Esco da questa
struttura e mi riverso nella città. E’ ancora notte. Taranto in qualche punto è
uguale a quella che conosco. Ma sono in chissà quale periferia. Cerco di fare
mente locale alle cose che ho sentito per comporre il fattore temporale e gli
anni trascorsi. Vedo su un portone di vetro una sigla ‘Press’. Penso fra me: “Cavolo! Ecco quello che fa per me.”
Entro e trovo
uno che se ne sta in poltrona con un libro in mano. Mi guarda e mi sorride
dicendo: «Salve». Rispondo: «Ho visto Press fuori, ho pensato…». Non mi dà il
tempo di finire la frase.
«A un giornale,
vero? Senta, quella è una mia
provocazione, oramai i giornali non esistono più, tutte le news sono aggregate
dalla rete in un nanosecondo e poi qualsiasi notizia che abbia riferimento con le
persone, il loro gusti, i loro viaggi, gli acquisti o persino i loro desideri, viene
immediatamente inserita nella rete e si materializza davanti agli occhi dei
singoli. Mi pagano bene solo per eventuali nuove di cui non si sa nulla e non ne
parla nessuno, le vere news».
Racconto la mia
vicenda e quel personaggio subito salta dalla sedia.
«Perbacco! Ecco
una vera notizia! Guardi, la inserisco subito!»
Così facendo
parla velocemente in un tubo e immediatamente le sue parole diventano uno
scritto, appaiono immagini: la mia faccia, articoli di giornale, video di “Chi l’ha visto?” e tutto entra dentro
una news che parte. Appare una scritta “Inviata”. Subito dopo compare una cifra
di soldi incassati, con la musica del tintinnio delle monete. L’amico è
raggiante, è stato pagato bene per una notizia strabiliante che reca il titolo:
“Dopo trent’anni compare il tarantino scomparso”.
Sullo schermo
appare una nuova scritta “Nuove interazioni dagli USA”.
Quello mi guarda
con occhi sfavillanti di gioia: «Sua moglie è viva e le sue figlie sono in
contatto virtuale con me. Stanno arrivando.»
Non sto capendo nulla,
ma il sapere che mia moglie stia venendo mi predispone al buon umore. L’appuntamento
è in una stanza di un hotel sul mare. E’ proprio quest’uomo della Press che mi porta
lì, felice di aver finalmente guadagnato qualcosa. Mentre arriviamo sul lungomare,
a bordo di una comunissima auto cabriolet, vedo che all’orizzonte non ci sono
più ciminiere. Lui si accorge del mio interesse e dice:
«Ora da quelle
parti c’è un parco di Archeologia Industriale dell’età del ferro.»
Arrivo sul punto
del lungomare di Taranto dove c’è l’hotel; la costruzione tutta in vetro
trasparente si dilunga su una vecchia darsena, che ricordo come un sgarrupato
cimelio di guerra.
Non so ancora se
hanno ridotto il tempo di volo dagli Usa a Taranto e mi predispongo per la
notte che ancora deve passare. Nel mio letto vedo il mare tra i vetri; anzi, sul
tardi, con l’alta marea la stanza pare finire proprio sott’acqua e vedo tanti
pesci colorati passarmi sopra e di fianco. Ripenso alle cose dettemi dal
giornalista, a proposito dell’archeologia industriale, e noto che la natura ha
sul serio preso il sopravvento.
E’ già mattino
quando noto un grosso pesce scuro vicino al vetro dove ho spiaccicato il volto.
Metto gli occhiali e vedo che in realtà si tratta di un videomaker con una
minuscola cinepresa che sta davanti al vetro della mia stanza e mi sta filmando
a cavallo di un drone.
Esco e noto che
tutto il lungomare è pieno di furgoni colorati, tanta folla. E c’è anche il mio
amico giornalista, anche lui sul drone, che mi saluta raggiante: ha venduto la
notizia al mondo, è diventato ricco.
Io penso alla
mia famiglia. In un frangente del mattino anche loro sono già qui. Il viaggio dall’America
si è dimezzato in 6 ore. Attorniate da telecamere telecomandate, vedo delle settantenni
che sorreggono una signora molto anziana. Hanno gli sguardi stralunati. La
donna anziana le osserva con disappunto, come per rimproverarle di aver creato
questo incontro con un perfetto sconosciuto. Ma le due signore mi osservano da
vicino. Una guarda una pallina di grasso sotto il collo, un'altra fissa il mio
sguardo con attenzione e sorride. Poi entrambe rivolte alla signora le dicono
in coro: «Mamma è proprio lui!»
Io non so che fare.
Riconosco le figlie che, anche se invecchiate, mostrano ancora la loro bellezza;
ma anche la persona anziana conserva quello sguardo sottile che ricordo, vivo, sottile.
Mi avvicino e le
dico con dolcezza: «Mi riconosci?»
E lei risponde
con evidente rabbia: «Perché tu non sei invecchiato?»
Le due figlie si
avvicinano a me e la più piccola mi sussurra: «Dormile accanto, vedrai che alla
fine si calmerà».
Così succede.
Così accade che mi sveglio da
questo incubo mentre mia moglie, che mi sta accanto, mi dice: «Non coricarti,
vai a buttare la spazzatura, che fra un po’ passano a ritirarla.»
«Noooooo!», le rispondo gridando.