Piccole riflessioni a partire
dalla prospettiva di Gustavo Zagrebelsky in “Sulla
lingua del tempo presente”. di Andrea
Giostra
Il saggio di Zagrebelsky,
“Sulla lingua del tempo presente”,
viene pubblicato da Einaudi nel 2010. Leggerlo dieci anni
dopo la sua stesura e pubblicazione, ci apre una visione della lingua
nostrae aetatis disvelatrice del modus operandi sistematico che il “potere
politico” e il “potere economico” mettono in atto utilizzando la
lingua per accrescere e consolidare l’esercizio della persuasione, e per
trasformare i cittadini in adepti-follower omogeneizzati, passivi e
acritici rispetto a quelle che sono le questioni e le scelte vitali di una
società civile finalizzate ad una sana convivenza “democratica”,
rispettosa delle differenze e della peculiare natura delle singole persone che
vivono una comunità, un determinato contesto (città, regione, stato) sociale.
Quello che viene descritto da Zagrebelsky nel 2010, possiamo osservarlo ancora
oggi, nel 2020, in un momento di grandi cambiamenti sociali e culturali
che stanno investendo la maggior parte dei paesi Occidentali e l’Italia
in particolare.
Le virgolette sul termine “democrazia”
sono necessarie - all’interno di questo articolo – proprio perché oggi, nel Ventunesimo
secolo, parlare di democrazia, di reale “democrazia compiuta” (?), lo si
può fare solo se si conosce davvero l’accezione che oggi ha assunto questo termine-concetto,
la sua reale applicazione, la valenza sociale, la condivisione di un
significato che non sempre – anzi raramente! - è uguale per tutti coloro che lo
utilizzano: ogni parte – politica, culturale, ideologica, religiosa - utilizza
questa parola con accezioni diverse, talvolta sintoniche talaltra diacroniche,
confondendo e rendendo colpevolmente sterile l’originaria e vera matrice del
nostro significante. È evidente, da quello che quotidianamente tutti noi assistiamo
sui social, nelle TV, leggendo i giornali, come la stragrande
maggioranza di coloro che utilizzano il termine “democrazia”, con
sorprendete nonchalance e apparente naturalezza, ignorano cosa
significhi realmente, qual è stata l’origine della democrazia a partire dal 6°
secolo a.C., e come e dove fu esercitata da allora
lasciandola in eredità culturale, con le sue imprevedibili mutazioni,
alle generazioni a venire fino a giungere a quella attuale.
Per chi dei lettori (non
giuristi) fosse interessato ad approfondire la conoscenza della genesi, la
storia e lo sviluppo nei secoli della democrazia occidentale, consigliamo, per
iniziare, la lettura della voce “democrazia” della Treccani. Poi è
ovviamente necessario continuare con lo studio di tutti gli approfondimenti (decine
di saggi e di autori) che lo stesso Treccani cita e consiglia ai suoi lettori
all’interno della voce “democrazia”, a partire dal “Politico”
di Platone (dialogo sulla politica a seguito del suo viaggio in Sicilia
tra il 366-365 a.C.) fino a giungere ai più importanti giuristi ed
intellettuali italici del Novecento quali Costantino Mortati
(“La costituzione in senso materiale”, 1940), Vezio Crisafulli
(“La Costituzione e le sue disposizioni di principio”, 1952; “La
sovranità popolare”, 1954); e Carlo Esposito (“La
rappresentanza istituzionale”, 1940; “La costituzione italiana”,
1954). Un ulteriore e importante supporto conoscitivo lo può certamente dare il
nostro contemporaneo Gustavo Zagrebelsky con i suoi scritti e in
particolare coi piccoli ma interessanti saggi, facilmente comprensibili anche
ai non giuristi e ai non addetti ai lavori, riportati nella bibliografia di
questo articolo.
Ma torniamo a “Sulla
lingua del tempo presente”!
«L’argomento
di questo libro è la lingua del presente - lingua nostrae aetatis - momento
sociale e politico (2010 è l’anno
in cui fu pubblicato il saggio di Zagrebelsky). La
lingua è la manifestazione autentica, non solo l’espressione artificiale di ciò
che è colui che parla. Attraverso l’ascolto della sua lingua si può cercare di
percepire qualcosa dell’essere che la usa, e che usa quella e non altra lingua.
«Il linguaggio come “casa dell’essere”», secondo uno degli oscuri e, al tempo
stesso, provocanti motti di Martin Heidegger (“In
cammino verso il linguaggio”, Mursia, Milano, 2007): il linguaggio che
al tempo stesso introduce gli uni agli altri e separa gli esseri parlanti. Per
questo, lo studio della lingua di una certa fase storica è il passaggio
inevitabile per la consapevolezza dell’ambiente umano in cui viviamo.» (p.
3). Questo scrive Zagrebelsky nelle prime pagine del suo libro. Volendo
sintetizzare le parole di Zagrebelsky, la lingua e l’uso che ne fa il singolo
cittadino, rende chiara e trasparente la sua identità sociale e culturale,
prima ancora che politica e ideologica. La lingua e il suo uso diventano di
fatto gli unici strumenti che possiede l’uomo per avvicinarsi o separarsi da
altri uomini, per sentirsi parte identitaria di un gruppo o per differenziarsi
da quel gruppo di persone. Da questa prospettiva si comprende bene come la
lingua diventi uno strumento formidabile – se la si usa con la distorta
finalità di chi detiene il potere - di controllo delle masse, e quindi di
rafforzare il potere politico ed economico di chi lo esercita in quel
particolare momento storico. «Quello che importa – continua Zagrebelsky
- è che effettivamente noi non solo pensiamo in una lingua ma la lingua
«pensa con noi» o, per essere ancora più espliciti, «per noi». Nelle dittature
ideologiche, la lingua è un formidabile strumento di propaganda e, con riguardo
a tale uso, è stata studiata. Lo stesso Klemperer ha seguito la vita
della lingua del regime hitleriano, dalla presa del potere alla caduta, nei
Diari 1933-1945 (“Testimoniare fino all’ultimo”, Mondadori, Milano, 2000)
e ha riassunto le sue analisi nel libro sulla LTI (Lingua Tertii Imperii -
“Lingua del Terzo Reich”)» (pp. 4-5). Utilizzare, per esempio, alcune
parole ripetutamente ed ossessivamente, ripetendole migliaia di volte,
attribuendo una accezione di parte e ideologica, consente di influenzare
notevolmente il pensiero di chi soccombe al (neo)significato che il potere deliberatamente
vuole attribuire a determinate parole per fini propri e di convincimento del
popolo stesso. Joseph Goebbels (potentissimo ministro della propaganda
del Terzo Reich) fu il maestro e l’inventore di questa “strategia” persuasiva
del popolo attraverso l’uso ossessivo e ripetitivo di determinate parole e
frasi: «Ripetere una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e
diventerà verità». E da questo punto di vista oggi siamo testimoni di come
alcune parole vengano utilizzate con una poderosa ed ossessiva coazione a
ripetere. A seguire ne analizzeremo alcune per fare qualche esempio
contemporaneo. I “significati” che vengono con forza attribuiti a determinate
parole, che Zagrebelsky definisce “prestazioni della lingua”,
inevitabilmente condizionano il popolo - il suo pensiero, la sua analisi, le
azioni (che perdono il “potere” del “libero arbitrio”) - e di conseguenza le
sue scelte. «C’è però una non trascurabile differenza, a seconda che queste
prestazioni della lingua siano gestite centralmente e con autorità da una
qualche burocrazia linguistica, visibile o invisibile, oppure, al contrario,
siano lasciate allo sviluppo diffuso e spontaneo dell’uso che quotidianamente
ne viene fatto. La lingua, nel primo caso, può essere dotazione del potere, che
se ne avvale per rendere omogenee le coscienze e governarle massificandole; nel
secondo, può essere strumento di coscienze che elaborano forme comunicative di
resistenza all’omologazione.» (p. 7).
In quale delle due condizioni
ci troviamo oggi in Italia?
Per il 2010 la
posizione che descrive Zagrebelsky è molto chiara. Lasciamo al lettore
di queste pagine la libertà di scoprirla leggendo il saggio del nostro autore.
Oggi, nel 2020, dal
punto di vista linguistico, che tipo di utilizzo fa il popolo della lingua e
quali le perverse deviazioni che utilizza il potere in carica?
Per dare uno stimolo di
riflessione al lettore (certamente non daremo - né siamo in grado di farlo! – nessuna
soluzione esaustiva per comprendere il fenomeno attuale) utilizzeremo la
seconda parte del saggio di Zagrebelsky dove vengono analizzate una serie di
parole in uso in quel periodo storico (2010), e dove vengono sottolineate le
distorsioni e, per certi versi, le perversioni politiche finalizzate
all’interesse di parte e non certamente all’interesse del paese o del popolo
che lo abita. Le dinamiche linguistiche descritte da Zagrebelsky nell’analisi
che fa di alcune parole in uso allora le ritroviamo incredibilmente attuali e
contemporanee nell’era della politica dei social italiana. Una tra tutte
la parola “amore” della quale, ripercorrendola dal nostro saggio,
tentiamo di fare un’analisi oggettiva e distaccata dell’uso che se ne fece
allora e che se ne fa tutt’oggi in politica. Per fare questo, iniziamo dai
fatti decritti e analizzati da Zagrebelsky che parte dal Kèrygma («Termine
che, nel Nuovo Testamento, indica l’annuncio della fede ai non credenti, e
quindi la proclamazione della salvezza come inizio del regno di Dio, che si
realizza attraverso la parola del Cristo» cfr. Treccani), ovvero, “la
discesa in campo” di un notissimo imprenditore milanese che il 26
gennaio 1994 a reti unificate nella sue TV commerciali, annunciò che sarebbe
“sceso in campo” per “salvare il paese” dagli incapaci, dai corrotti,
dai parassiti prestati alla politica. Uno dei passaggi chiave e più
interessanti del suo discorso fu «una frasetta che sembrava buttata lì: “l’Italia
è il Paese che io amo”. Così anche l’amore faceva la sua discesa nel
linguaggio della politica.» (p. 21). Questa frase ebbe trasversalmente un
effetto potentissimo tra gli italiani che videro la TV quella sera. Un effetto
tanto potente che il neo Partito Democratico pensò bene di adeguarsi a quel
linguaggio, a quelle parole, in una sorta di parafrasi che diceva: «Noi,
i democratici, amiamo l’Italia». Da un lato si assistette ad una
geniale frase che attrasse prima la curiosità, poi l’interesse e infine la
fiducia di milioni di italiani delusi dalla politica esercitata dal potere fino
ad allora; dall’altra parte, la superficiale e per certi versi rocambolesca
imitazione linguistica della parte avversaria, diede la netta sensazione di una
formidabile «tronfia retorica» che effettivamente, più che avvicinare
allontanò gli italiani dal partito di sinistra che aveva coniato quelle parole che
nelle intenzioni dovevano demolire quelle avversarie. «Questo modo di usare
la lingua viola una regola fondamentale che tutti dovrebbero osservare,
massimamente in politica, il regno delle differenze: ciò che non potrebbe
essere diverso non merita d’essere detto. Questa è l’etica alla quale dovrebbe
ispirarsi il parlante che non vuole gettare parole al vento.» (p. 22). A
questo punto è curioso e interessante analizzare l’uso e gli effetti che ebbero
le stesse parole pronunciate dalle opposte parti politiche: «Le due
dichiarazioni d’amore si equivalgono? No, non si equivalgono. La prima (“L’Italia
è il paese che io amo”) è una dichiarazione sovrana che proviene da
uno che ha già detto che, se avesse voluto, avrebbe potuto continuare una vita
felice in sé e per sé. (…) L’Italia, così, diventa la prediletta che, in virtù
di questa predilezione, dovrà ricambiare l’amore che tanto gratuitamente le è
stato donato. La seconda dichiarazione (“Noi, i democratici, amiamo
l’Italia”) è tutt’altra cosa. Non è un atto sovrano. È un atto sottano.
(…) La dichiarazione d’amore, in questo caso, suona falsa perché è obbligata,
l’amore obbligato cosa è? Può essere un’adulazione interessata. Anche la prima,
naturalmente, lo è, ma si presenta in tutt’altro modo, come un dono d’amore,
una dedizione gratuita, un atto commovente. Chi potrebbe resistere a cotanto
amante, a un simile seduttore? Chi potrebbe, a sua volta, non riamarlo? Ma se
non riama? Se l’amore non è corrisposto? Se non c’è corrispondenza a un amore
così grande da comportare il sacrificio della propria bella vita, è perché
qualcuno odia.» (pp. 23-24). Fu chiaro in quel tempo e a quel punto
– volendo interpretare le parole di Zagrebelsky - che l’uso “distorto” e
“opportunistico” della parola “amore”, innescò la genesi di una
divisione ideologica tra “coloro che odiano” e “coloro che
amano”: l’Italia, gli italiani, la patria, la cultura, le tradizioni, i
beni culturali, l’arte, il cibo, la cucina, gli imprenditori, gli artigiani, i
giovani, gli anziani, i poveri, … etc… etc…
L’esempio di Zagrebelsky, le
dinamiche linguistiche e le differenti percezioni che abbiamo appena riportato sulla
parola “amore” nell’uso di allora, possiamo certamente traslarle ad altre
parole, ad altri concetti, ad altri significanti in uso oggi in modo ossessivo,
quotidiano, ripetitivo e spesso decontestualizzato, che non possono che
innescare processi linguistici ideologici divisori più che aggreganti. Quello
che possiamo certamente dire è che oggi, in questi giorni e mesi del 2020,
assistiamo e ascoltiamo l’uso di parole che effettivamente hanno le stesse
ricadute linguistiche e di “appartenenza” che ebbero nel 2010. Un uso che
divide una parte politica dall’altra non per i contenuti e per le soluzioni
politiche proposte, bensì per il “pericoloso” messaggio che di fatto
racchiudono queste parole come le hanno volute le parti che le hanno utilizzate
e che le stanno utilizzando. Per comprendere il ragionamento, riportiamo in
ordine sparso solo alcune parole, alcuni esempi di uso distorto di questi ultimi
anni e mesi, lasciando al lettore l’analisi delle “deviazioni di
significato” che appaiono assai evidenti: salvare, diritti, difesa dei
confini, difesa del popolo, sicurezza, democrazia, Europa, violenza, incapaci,
incompetenti, traditori, manette, galera, odio, nazismo, fascismo, comunismo, xenofobia,
violenza, bullismo, etc… etc…
Tutte queste dinamiche, in Italia, fanno il paio
con un sub-strato culturale e umano che favorisce l’attecchirsi di scontri
violenti e preoccupanti proprio sul linguaggio e sulla lingua. Se è vero come è
vero quello che disse nel 2016 – e da allora le cose sono peggiorate e
non certo migliorate, come dimostrano le recenti ricerche su questo tema
dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) - il
prof. Tullio De Mauro (1932) (uno dei più grandi linguisti italiani e
già ministro della pubblica istruzione dal 2000 al 2001 nel governo Amato II ),
che «Il 70% degli italiani non capisce quello che legge (…) 8
italiani su 10 hanno difficoltà a utilizzare quello che ricavano da un testo
scritto, 7 su 10 hanno difficoltà abbastanza gravi nella comprensione, e 5 milioni
di italiani hanno completa incapacità di lettura. Un nostro diplomato nella
scuola media superiore ha più o meno lo stesso livello di competenza di un
ragazzino di 13 anni che esce dalla scuola media: i 5 anni di scuola media
superiore girano a vuoto e questo determina un bassissimo livello di quelli che
entrano all’università. Il risultato è che i diplomati di scuola media
superiore in molti paesi hanno livelli di competenza linguistica, matematica,
di comprensione, di calcolo ben superiori a quelli dei nostri laureati. Abbiamo
bisogno di un buon livello di istruzione per poter trovare le fonti buone per
informarci e per utilizzare bene queste informazioni, per utilizzarle
criticamente! Questo sarebbe indispensabile per tutti, per un buon esercizio del
voto.» Ma se la stragrande maggioranza degli italiani, ben oltre il 70%, ha
effettivamente queste difficoltà di comprensione, che tecnicamente vengono
definite “analfabetismo funzionale”, ovvero, l’incapacità di passare
dalla decifrazione della lettura alla comprensione di un testo anche semplice,
allora si comprende bene come sia davvero difficile che queste stesse persone –
il 70% dei cittadini del nostro paese, e tra questi un’alta percentuale di
laureati e diplomati – possano esercitare un senso critico sulle proposte
politiche che vengono fatte e quindi decidere consapevolmente su cosa sia
meglio per il loro benessere, per quello della loro famiglia e della comunità
di appartenenza. Il consenso politico per una parte piuttosto che per un’altra,
e la capacità di creare e di manifestare una propria opinione che sia aderente
e rispondente alla realtà dei fatti che si vive quotidianamente, ai propri
reali bisogni (primari e secondati, e non certamente ai “bisogni indotti”
dal Capitalismo finanziario finalizzato a creare “cittadini consumatori”),
diventa davvero difficile e spesso dissonante con la verità. È evidente, da
questa analisi, l’incapacità del cittadino che subisce la propaganda e le “accezioni”
che il potere dà a determinata parole, di muoversi nella direzione che li
conduca al miglioramento delle sue condizioni di vita e favorisca, con le sue
scelte ed azioni, il consolidamento del proprio benessere e della comunità di
cui fa parte, nonché il rafforzamento della democrazia nell’accezione nobile e
“originaria” del termine. In sostanza, “soffrire” di analfabetismo funzionale
vuol dire subire acriticamente e passivamente la lingua del potere e rimanerne
vittime inconsapevoli. La presunta facoltà di discernere cosa è “bene”
da cosa è “male” per sé stessi, per la propria famiglia e per la
propria comunità, fra le centinaia di migliaia proposte politiche, di post
e di informazioni che volano veloci sui social, su Internet, nelle TV,
nelle radio, sulla carta stampata, viene inevitabilmente compromessa, se non
azzerata. Conoscere la lingua ed esercitarne l’uso consapevole, attraverso un
livello culturale e di conoscenza adeguato – al quale livello si arriva
attraverso lo studio serio e disciplinato - vuol dire innanzitutto essere capaci di fare i
propri interessi e quelli della comunità della quale si fa parte, ed al
contempo, essere immuni dalle azioni perverse esercitate dal più potente degli instrumentum
regni che è l’analfabetismo del popolo: un efficace e straordinario strumento
di esercizio del potere utilizzato dai potenti sin dalla notte dei tempi delle
civiltà, e anche – ovviamente! - dai potenti contemporanei delle cosiddette “democrazie”.
Andrea
Giostra
Gustavo Zagrebelsky
Bibliografia:
Vezio Crisafulli, “La
Costituzione e le sue disposizioni di principio”, Giuffrè ed., Milano, 1952
Vezio Crisafulli, “La sovranità popolare nella Costituzione italiana”,
in Scritti in mem. V.E. ORLANDO, I, Padova, 1957.
Carlo Esposito, “La
rappresentanza istituzionale”, 1940
Carlo Esposito, “La
costituzione italiana”, CEDAM ed., Padova, 1954
Martin Heidegger, “In
cammino verso il linguaggio” (1959), Mursia ed., Milano, 2007
Victor Klemperer, “Testimoniare
fino all'ultimo: diari 1933-1945”, Mondadori Ed., Milano, 2000
Costantino Mortati, “La
costituzione in senso materiale”, Giuffrè Ed., Milano, 1940
Gustavo Zagrebelsky, “Il
diritto mite”, Einaudi Ed., Torino, 1992
(revisionato e ripubblicato nel 2013)
Gustavo Zagrebelsky, “Sulla lingua del
tempo presente”, Einaudi Ed., Torino, 2010
Gustavo Zagrebelsky, “Fondata sul lavoro. La solitudine dell’articolo 1”,
Ed. Einaudi, Torino, 2013
Gustavo
Zagrebelsky, “Contro la dittatura del presente.
Perché è necessario un discorso sui fini”, Ed. Laterza, Roma, 2014.
Treccani:
PIAAC-OCSE | Rapporto Nazionale
sulle Competenze degli Adulti: