di Andrea Giostra
“Vita di Pi” di Ang Lee è una straordinaria e
spettacolare metafora della vita dell’uomo, delle emozioni devastanti e dei
moti d’animo ri-nascenti che l’attraversano dalla nascita alla morte terrena. Sono
la sintesi e la semplicità descrittiva gli
elementi che fanno del film di Ang Lee un’opera d’arte che sa colpire al cuore
lo spettatore in modo indolore e subliminale. Salvo poi, quando alla fine i
titoli cominciano a scorrere sul grande schermo, costringerlo a riflettere sul
significato del film, a renderlo consapevole, lentamente, che il messaggio è
arrivato e che questo messaggio è silenziosamente fragoroso all’interno della
sua “anima”, della sua sensibilità di essere umano. I piani di lettura di Lee
sono molteplici e si succedono repentini intrecciandosi ripetutamente, quasi a
voler confondere lo spettatore, obbligandolo a cambiare celermente punto di
vista, prospettiva, griglia di lettura, matrice interpretativa. Gli “elementi primari”
con i quali Lee ha creato questa sua “meravigliosa opera” – nel senso che per
lunghi tratti il film rappresenta una “realtà filmica” meravigliosamente
(wondrous things!) onirica e ipnotizzante – sono tanti, ma rimangono
incontaminati e sempre chiaramente riconoscibili in ogni momento del film:
allegorici e metafisici, politici e religiosi, etici e morali, ludici ed
esistenziali, sentimentali e razionali, passionali e cinici, opportunistici e
altruistici, darwiniani e cristiano/musulmano/induisti. Già questo risultato
riuscirebbe ad ergere il film come uno dei migliori dell’anno del Signore 2012.
Dopo aver costruito una preliminare cornice narrativa
apparentemente scontata, Lee fa entrare in scena il naufrago protagonista del
film, il giovanissimo e bravissimo Suraj Sharma, che, provando a
rinnegare la dolorosissima tragedia del naufragio subìto, e non potendo
cancellare le improvvise e laceranti ferite lasciate dal dolore inflittogli
dall’improvvisa perdita dei suoi familiari, trasforma lentamente il suo
terribile pathos interiore nella fantastica avventura evolutiva e
spirituale dell’uomo di ogni tempo.
Tra imprevedibili peripezie, inaspettati e pericolosi
attacchi mortali, minacciosi uragani e tempeste oceaniche, in Sharma
prendono irruentemente e prepotentemente il sopravvento, per condurlo alla
salvezza di giovane naufrago, l’ancòra ignorato istinto di sopravvivenza, la
fiducia sempre più vigorosa nel proprio talento, la forza umana che si sprigiona
dall’immenso amore ricevuto dai suoi cari oramai persi per sempre. Sono la
speranza e la fede in Dio i porti sicuri nei quali ci dobbiamo rifugiare nei
“momenti di tempesta”. È questa la rotta di vita e l’àncora di salvezza
terrena, prima ancora che divina, che magnificamente con un film fantastico
traccia Lee: solo la fede e la speranza possono farci superare i momenti di
grande dolore, i momenti in cui tristi ci sentiamo soli al mondo, i momenti in
cui abbiamo irrimediabilmente perso ogni cosa. Solo la fede e la speranza
possono darci la giusta spinta vitale, dopo le “terribili sciagure” subìte, per
gustare con passione ed entusiasmo la nostra vita, e dare un senso compiuto
alla nostra esistenza terrena.
Post Scriptum.
È interessante conoscere la genesi del romanzo e della
storia narrata nel film di Lee.
Intorno agli anni Novanta lo scrittore e viaggiatore
canadese Yann Martel, leggendo una recensione di John Updike sul “New
York Times Review of Books”, viene a conoscenza dell’ultimo romanzo
dello scrittore brasiliano Moacyr Scliar, che narra la storia di una
famiglia ebrea che nel 1933 gestisce uno zoo a Berlino. A causa
della crisi economica di quegli anni, la famiglia decide di emigrare in Brasile
portando con sé tutti gli animali dello zoo, trasportandoli su una grande nave
mercantile. Durante il viaggio, però, la nave affonda. Gli unici superstiti,
che si ritrovano su una scialuppa in mezzo all’oceano, sono un ebreo e una
pantera nera. È chiara l’allegoria della storia di Scliar: la pantera nera
rappresenta il temuto regime nazista.
Cinque anni dopo, durante il suo secondo viaggio in
India, mentre ammira la splendida vista sulla pianura di Bombay dalla
silenziosa e isolata stazione arroccata sulla collina di Matheran,
Martel ha l’ispirazione. Prendendo spunto dalla premessa della storia di
Scliar, nella sua mente improvvisamente esplodono le idee per quello che già
allora immagina il romanzo della sua vita. Martel ha due protagonisti
principali: un ragazzo indiano e una tigre del Bengala che per 277 giorni
dovranno condividere una scialuppa di salvataggio in mezzo all’oceano. Tre le
caratteristiche umane che vuole impersonare nella sua storia: la iena (la
vigliaccheria), l’orango tango (l’istinto materno), la zebra (l’esoterismo), che
si ritrovano, assieme a Pi e a Richard Parker, sulla scialuppa.
Richard Parker è il nome che Martel dà alla “sua” tigre
del Bengala. Richard Parker è il nome di diversi naufraghi di epoca vittoriana,
alcuni realmente esistiti, cannibalizzati o uccisi in mare dai loro stessi
compagni di sventura. Il più noto è quello raccontato nel 1838
nell’unico romanzo di Edgard Allan Poe dal titolo “the Adventures
of Arthur Gordon Pym”. Altri Richard Parker naufraghi cannibalizzati o
impiccati in mare, si succedono negli anni: 1797, Richard Parker
marinaio, capo rivolta di uno dei due grandi ammutinamenti della Royal Navy
vittoriana passati alla storia come “Spithead and Nore mutinies”;
1846, Richard Parker apprendista, naufrago del “Francis Spaight”;
1884, Richard Parker mozzo, naufrago della “Mignonette”.
Il romanzo di Martel viene pubblicato nel 2002.
Nello stesso anno vince il prestigiosissimo “Man Booker Prize for
Fictioon”, istituito nel 1968 da un’azienda privata britannica
con la sponsorizzazione della McConnell, e assegnato al miglior romanzo
scritto in inglese da un cittadino del Commonwealth delle nazioni,
dell’Irlanda o dello Zimbabwe. Dal 2002 la gestione e la titolarità del premio sono
della “Booker Prize Foundation”.
“Vita di Pi” (2012) di Ang Lee, pagina ufficiale IMDb:
Trailer ufficiale “Vita di Pi”:
Andrea Giostra