di Enrico Cavalli. L’AQUILA - L’immagine di un Abruzzo interno aquilano all’indomani
dell’Unità, legato esclusivamente alle fortune della industria armentizia, non
pare più storicamente corretta, alla luce di recenti ed approfondite indagini
sulla realtà socio-economica locale nel secolo XIX.
Meno prodiga era la natura
dal punto di vista dei prodotti della terra, tanto più prende corpo il settore
artigianale che interagendo con le attività agricole, determinava le cosiddette
protoindustrie. Il censimento generale del Regno
d’Italia nel 1861, vedeva ad Aquila
(nel 1861 “degli Abruzzi”, dal 1939 “L’Aquila”), la presenza di originarie
forme di attività manifatturiere.
Tali opifici non potevano contare su
grandi risorse economiche, servendo nelle campagne per integrare il reddito
delle classi contadine, eppure, cercavano di rinverdire la grande tradizione
artigianale aquilana dei secoli XIII-XV, tanto che come scrisse Niccolò Machiavelli nelle sue “Istorie Fiorentine” (1525, n. 5), la
città era la seconda per importanza in tutto il Regno di Napoli. Le piccole imprese aquilane che tentavano di
aumentare la produzione, onde uscire dalla dimensione dell’autoconsumo, erano
votate al comparto tessile e specificamente laniero, vista la resistenza della
struttura armentaria; indubbiamente, sfruttavano le risorse comunque esistenti
nel territorio, di qui, oltre alla rilevanza delle ditte di legname, che però
eccessivamente depauperavano le ricchezze boschive, si palesava un discreto
numero di operatori del settore alimentare, per una sapiente maestria dell’arte
culinaria difesa nei secoli, dalle influenze esterne a causa, invero, della
orografia del luoghi. Proprio la impervia fisicità della natura nella sua
varietà, induceva a delle derrate se non quantitativamente, almeno,
qualitativamente peculiari e che caratterizzavano la identità dell’Aquilano,
oltre i confini regionali, insomma, non solo destinabili all’autoconsumo.
Nella prima storica rassegna delle
industrie dell’Abruzzo Ulteriore II, a cura di uno degli esponenti più insigni
del patriziato aquilano, il barone Teodoro
Bonanni nel 1888, si apprende della esistenza di opifici a carattere
familiare, sottesi alla fabbricazione di rinomati liquori e dolciumi. Entro
questo speciale comparto alimentare, un importante opificio per numero di
occupati, livello produttivo e visibilità su mercati nazionali ed esteri, era
quello dei “Nurzia”. Le origini di
questa ditta vanno fatte risalire a Saverio
Nurzia, nativo (dal falegname Bernardino) nel 1736, ad Arischia, ad ovest al Gran Sasso, fra le capitali della industria
armentizia e del legname di faggio, intagliabile in tini, arche, ed arredi
pastorali mirabili in tutto il Napoletano, da una sequela di casati artigiani,
quali i Cacchio, Testoni, Gizzi, Capannolo,
fautori di non poche avventure imprenditoriali nell’Aquilano, nei tempi a
venire. Mentre Arischia è
attraversata da forti dinamiche sociali, per effetto delle progressive
rivendicazione dei naturali verso i marchesati dei Cappelli, i detentori del Chiarino
ricco di acque, boschi, pascoli, Saverio,
gradualmente, domiciliava la sua professione di tinaro e distillatore di erbe montane nel 1769, al quarto
amiternino di Aquila, a capo piazza
del Duomo; il figlio Gennaro, nato
nel 1788, coltivò con successo l’idea di maggiorare la produzione di liquori,
ovvero di pregevole china ad uso delle élites cittadine, le protagoniste della
ruralizzazione settecentesca post sisma del 1703.
Nel contesto di una Aquila volta a mantenere il ruolo di capitale amministrativa degli Abruzzi, anche dopo la Restaurazione del 1815, la ditta Nurzia conobbe una piccola svolta con Francesco Saverio che nel 1835, su
rescritto di Ferdinando II di Borbone,
pur continuando a smerciare pregevoli tini, apriva in una piazza del Duomo,
valorizzata dall’urbanistica del 1826, una bottega per la vendita al minuto di
liquori e dolciumi. La trama commerciale dei Nurzia venne rafforzata dal nipote Ulisse, che ligio alle indicazioni di famiglia, in una Aquila perdente smalto imprenditoriale
dopo l’Unità per via di un certo isolamento ferroviario, intese investire somme
per l’importazione da piazze nazionali ed estere di derrate alimentari, ovvero,
dallo champagne a prodotti esotici, passando per il prezioso cacao.
A fine Ottocento, la “Saverio Nurzia & Figli” poteva
vantare un secondo negozio sul Corso Vittorio Emanuele II, vicino all’elitario
dal 1865 Circolo Aquilano, e
laboratorio a porta Napoli, quasi a sintetizzarsi, in queste due nuove
denominazioni dei luoghi di impresa familistica, i cambi di regime avvenuti ad Aquila degli Abruzzi. L’estro dei
Nurzia, evidentemente, autosedimentatosi da diuturne fatiche alle falde del Gran Sasso, fra verdi faggeti ed acque
limpide, elaborava una sempre più sopraffina arte pasticcera, dalla quale
scaturiva il torrone “tenero al
cioccolato”. Nota prelibatezza, il torrone, dal tempo delle guerre dei
Sanniti contro Roma ed a Tito Livio, secondo una leggenda inventata alle
Crociate, più o meno in contaminazione Arabica, di sicuro, in una esclusiva
pasta di miele e mandorla bianca, sfornato dai dolciari di Cremona nel 1441,
per le nozze fra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti in unione dinastica,
sancita dal celeberrimo “Torrazzo”.
Proprio nel ‘400 dorato aquilano sarebbe
spuntato un torrone, certo, privo del cacao, stando allo studio dell’Accademico
di cucina Luigi Marra nel 2010. Dunque,
col torrone si valorizzava un prodotto della cultura artigianale municipale e
che grazie alla credibilità dei suoi creatori, incontrava il gusto del
pubblico, per la segretezza della ricetta messa a punto da viaggi in Europa, da
Ulisse e qualità finissima dei suoi
ingredienti naturali; sicché il dolce aquilano fu meritevole di medaglie e
riconoscimenti in diverse esposizioni dolciarie della penisola ed in Svizzera,
fino a ricevere elogi di papa Pio X,
sin lì, probabilmente, aduso allo zuccherato torrone romano. Una piccola parte
del successo riscosso dalle prelibatezze Nurzia, ufficialmente con marchio
depositato nel 1910, stava nelle forme di presentazione del prodotto, le cui
eleganti confezioni recanti una donna dalla foggia in stile parigino, sottesa
ad edificare una torre con le scatole di torrone, erano ad opera di artigiani
milanesi; mentre, riguardo alle campagne pubblicitarie, ci si rivolgeva a
cataloghi realizzati dalle primissime officine cartarie di tutta la penisola,
quelle di San Leucio a Caserta.
Nell’era delle palingenesi sociali la
ditta Nurzia realizzava, a fronte di
ingegni ed aggiornamenti sul campo, una piccola rivoluzione nel comparto
dolciario continentale, in quanto la specialità natalizia dominante era il
succitato cremonese torrone, ma che per taluni esteti del gusto, era
caratterizzabile da progressiva durezza. Invece, l’inconfondibilmente aquilano
torrone “tenero al cioccolato”, peraltro fruibile in altre stagioni, nelle sue
tre varianti, come dai cataloghi di inizio 900, al cacao “uso Veneto” ed “uso
Cremona”, nonché alla vaniglia, si imponeva nelle tavolate delle feste di fine
anno degli italiani. Grossi nomi italici del settore alimentare mostravano
interesse ad acquistare la ricetta del torrone da Ulisse, che orgogliosamente
rifiutava queste profferte, poi, pensando di portare la produzione del dolciume
a Milano, onde diffonderlo nel
nord-Europa. Nonostante un afflato di risorse economiche importanti,
l’aquilanissimo torrone “tenero al cioccolato”, le cui confezioni esibivano
oltre al nome di Aquila, anche
quello della capitale economica del Paese, scontava diverse difficoltà: la
concorrenza degli omologhi cremonesi, disattenzioni gestionali delle
distribuzione, forzata diversità degli ingredienti, tipo l’acqua fresca e
chiara del Chiarino, il climaterio umido milanese.
Coraggiosamente, Ulisse reputò opportuno dismettere il suo progetto di una fabbrica
milanese. Ritornato nel suo ambiente naturale di produzione, tanto negli
ingredienti che nelle capacità delle maestranze, il torrone Nurzia al prezzo di lire cinque, riguadagnava fette
di consumatori, grazie ancora, all’uso efficace delle primigenie forme di
pubblicità, poiché le scatole ebbero impresse le oleografie del grande pittore Teofilo Patini: celeberrima la
riproduzione nel 1882 del quadro con immagine del pastore difensore del gregge
dalle incursioni delle aquile ed esposto al Liceo “D.Cotugno” di L’Aquila. Con
questo notevole testimonial pittorico si denotava della volontà di accreditare
un prodotto tipico regionale, come del resto, facevano altre imprese del
rampante comparto dolciario abruzzese, si pensi ai vari adriatici parrozzi e
centerbe, griffati dai motti del Vate Gabriele
D’Annunzio. Un amico ed allievo
dell’artista sangrino, Carlo Patrignani,
versatile personaggio dell’attivismo giolittiano locale, già restauratore al
Teatro comunale, fu l’affrescatore, alla moda dei café chantant di Parigi,
della famosa bottega Nurzia, a capo
piazza del Duomo. I contraccolpi del sisma marsicano del gennaio 1915 non
furono lievi ad Aquila, per vittime
e puntellamenti nel centro storico, inducendo anche la Ditta Nurzia, temporaneamente, al trasferimento dell’attività in
una baracca di legno, sempre a piazza del Duomo.
A seguito dell’ingresso italico nella
Grande Guerra, come tutte le imprese locali, quella che ormai era invalsa a
fabbrica del torrone aquilano, intese contribuire da par suo alla mobilitazione
patriottica che vide in guisa interclassista soccorsi ai soldati e sfollati al
fronte. Il mutamento di regime, dopo il 28 ottobre 1922, non provocava
particolari traumi per la produzione dei torroni
Nurzia, punto di vanto della Corporazione provinciale degli imprenditori,
sebbene nel settore, a livello locale, bisognasse registrare la concorrenza
della rampante “Perugina”, sbarcata
in città nel 1933, in un sito scelto personalmente dalla fondatrice dei “Baci”,
Luisa Spagnoli, ai Portici del
Liceo-Convitto rimodernati nella temperie della Grande Aquila. Difficoltà
sopraggiunsero al periodo autarchico per l’impossibilità d’importare il cacao
pregiato; tali disagi di approvvigionamento, gradualmente superabili, del
resto, all’epoca, per gli italiani, vi erano i consigli ai consumatori di “Petronilla”
, al secolo Amalia Foggia-Della Rovere
sulla Domenica del Corriere, tipo per il cioccolato, un impasto sostitutivo di
farina di carrube, nocciola, olio, miele o zucchero, da cui ad esempio, nelle
Langhe, nacque la “SuperCrema”, l’antesignana della "Nutella” di Novi Ligure.
Problematiche di surrogati a parte, un
decisivo evento nella fabbrica dei Nurzia
avvenne nel 1940, quando Ulisse
cedeva il testimone ai suoi rampolli; la spartizione aziendale, previde in
fedecommesso ai nipoti del figlio Tito,
lo storico punto a piazza del Duomo, il laboratorio di Porta Napoli e vicina
villa liberty; alle figlie Ada e Ines fu fatto dono dei brevetti ed uso
del marchio Nurzia per le produzioni
dolciarie. Si riusciva a proseguire la produzione del torrone aquilano
garantendo una solida attività economica, per il contesto locale, in quel
drammatico periodo della seconda guerra mondiale. Con la Ricostruzione post
1945, nella nuova configurazione imprenditoriale dell’Aquilano sotto l’egida
del laniero Giuseppe Mori, la
municipale industria principe del settore dolciario accentuava il suo processo
di produzione: si tentò di caramellare lo zucchero riscaldandolo con la
fiamma a gas ed apparecchi sotto vuoto, ma si dovette constatare come il
torrone smarrisse il suo inconfondibile sapore, allora tornandosi alla
lavorazione del dolciume natalizio per antonomasia imperniata sulla fiamma del
faggio arischiese.
L’impresa diversificava la gamma dei
prodotti lanciando il “Nurziarello”
dalla glassatura finissima in cacao e dai gusti al rhum, vaniglia, caffè, e, la
“Ferratella”, un tipico dolce
abruzzese la cui ricetta si perde in trame culinarie antichissime stando al
gourmet italico Massimo Lelj nel
1933, ma che in salsa aquilana a parte l’uso degli ingredienti tradizionali e
la schiacciatura della pasta di anice nei ferri, ebbe la novità della
leggerissima copertura in cioccolato. Pur incontrando i favori di una massa di
consumatori extra-moenia, vi erano
della criticità implicite nella fabbrica nurziana circa la necessità della
ristrutturazione di un modello di gestione familiare più al passo coi tempi. Da
un lato l’Antica Ditta Fratelli Nurzia di
Tito Nurzia con implementazione di
macchinari sofisticati per la mescola di cioccolato, ma non per la sua
spalmatura da farsi manualmente per non incorrere in deviazioni di gusto;
dall’altro, il logo “Sorelle Nurzia di
Ada e Ines Nurzia”, con prospettive di incrementi societari. Indubbiamente,
su entrambi i fronti, si agitarono dei meccanismi competitivi.
Alla scomparsa del padre nel 1956, le Sorelle Nurzia denunciarono delle
campagne commerciali troppo invasive, da parte del loro fratello, ma si
addivenne ad un accordo per la vendita del prodotto, da diversificare nelle
rispettive confezioni. Chiuso il contenzioso, mentre Tito comprendeva il mutamento di costume dei favolosi anni ’60,
accattivandosi la clientela con campagne pubblicitarie eccentriche, ma non
prive del gusto d’antan, Ines
cedette la sua quota societaria ad una affermata rete della grande
distribuzione commerciale, non solo abruzzese, facente capo alla famiglia
aquilana, da una generazione, dei Farroni,
un di cui capostipite, Domenico, fu membro benemerito della Cassa di Risparmio
dell’Aquila, dal 1859 la più grande intrapresa del capoluogo di regione.
Il risultato di questi rivoluzionamenti
dentro una Ditta con più di un secolo alle spalle, alla fine dei tumultuosi
’70, fu il sorgere di una società in nome collettivo tra le mogli dei tre
fratelli Farroni, Romana Calisti, Concetta Giuliani, Marina Nocelli ed Ada Nurzia
e che all’atto della scomparsa di quest’ultima nel 1979, per volontà dei suoi
eredi, si trasformò nella società in accomandita semplice “Ines Nurzia già Sorelle Nurzia”, ottenente premialità su scala
mondiale nel 1974, nondimeno, analoghi riconoscimenti andati ai ”Fratelli Nurzia”. Si registrò, negli
anni ’80 del benessere sociale diffuso, un aumento della produzione di torroni
di cui beneficiarono entrambe i casati recanti il nome Nurzia, tuttavia, il massivo accesso alle grandi catene di distribuzione,
come il Gruppo Rinascente, permise
alle”Sorelle Nurzia”, un’espansione
oltre il tradizionale mercato del Centro Italia, anzi, arrivando Oltreoceano.
Senonché andava in scena la fine della
tregua tra le due ditte del torrone aquilano, la di cui comune somiglianza del
marchio di classica matrice patiniana e packaging avevano tratto in confusione
alcuni forestieri, piuttosto desiderosi di acquistare il prodotto delle “Sorelle”,
invece di ritrovarsi in mano quello dei “Fratelli”. Ne derivava l’ordinanza
tribunalizia di cessazione dall’uso illegittimo di marchi ed involucri, alla
scuderia di Tito che, nel 1985,
lasciava in eredità ai figlio superstite Ulisse
jr, che a sua volta, cedeva le chiavi del patrimonio aziendale ai giovani
rampolli, Natalia e Francesco Saverio jr. Il nuovo corso,
mentre la municipalità intitolava una via ad Ulisse Nurzia in quel del polo artigianale di Pile, era più in
linea alle trame manageriali dei tempi, nonché con un allargamento del prodotto
base, ai sempre più diversificati gusti dei consumatori, specie occasionali,
della bottega di piazza del Duomo, risparmiata strutturalmente dall’indicibile terremoto
dell’Aquilano, il 6 aprile del 2009, anzi divenendo uno dei simboli della
resilienza del capoluogo abruzzese, poiché riaprente i battenti alla festa
dell’Immacolata di quell’anno.
Tuttavia, ai fini della messa in antisismicità
totale dell’antico stabile, visitato da molti grandi politici della Terra, per
il G8 a L’Aquila nel 2009, a poco
più di un lustro da quel fatidico frangente, per la prima volta, dopo quasi due
secoli, il torrone Nurzia, esce dal
suo storico luogo di ideazione, onde accasarsi, certo, temporaneamente, al
palazzo dell’ex Standa in corso Federico II. Con lo sviluppo delle moderne
forme pubblicitarie, derivanti dalla radiofonia prima, poi dalla televisione,
per non dire delle ultime comunicazioni telematiche, la realtà del torrone
Nurzia, pur in due rami dialettici commercialmente, via via ha rafforzato la
sua posizione nella nicchia di comparto nazionale, forse più in là della realtà
omologa in cui si è inserita, anche in ottica di responsabilità sociale
d’impresa, con riferimento alla scelta nella catena produttiva di alimenti che
non siano impattanti rispetto alle sensibilità ecologiche di varie fasce dei
consumatori: si pensi alla ultima versione vegana delle ”Sorelle Nurzia”.
Sulla scìa di questa riconosciuta
leadership del torrone “tenero al
cioccolato”, localmente e regionalmente, si son registrati più o meno
fortunati tentativi di emulazione, ormai, divenendo una consuetudine sempre più
radicata, quella di donare alle ricorrenze più importanti, in primis, alle
Natalizie, il famoso dolce aquilano, del resto, inserito, su proposta della Regione Abruzzo, nella lista dei
prodotti agroalimentari tradizionali del Ministero delle Politiche Agricole,
Alimentari e Forestali, nel 2010. Il torrone
Nurzia, proiettato sui mercati di risonanza internazionale, eppure mantiene
quella tradizione artigianale, originata alle falde del Gran Sasso ed alla base della sua affermazione, e che lustro e
visibilità ha conferito dal 1835 all’Aquilano, attraversandone tutte le fasi
storiche, nondimeno l’ultima e più difficile sfida, quella della Ricostruzione post-sisma,
non disgiungibile da discorsi di valorizzazione identitaria. Ovvero di tutto
ciò che è stato il background
materiale e morale di un popolo e delle famiglie di cui esso naturalmente, si
compone.