L’AQUILA - “L’accoglienza delle persone migranti”, a
cura di Tiziana Grassi, è un bel
libro appena pubblicato da One Group Edizioni.
L’insigne studiosa di fenomeni
migratori, giornalista e scrittrice, è un corposo testo di elevato valore
scientifico, civile e sociale in un tempo in cui la verità del fenomeno
migratorio ha subìto le più bolse torsioni ad uso e consumo di una politica che
alla responsabilità di governo ha sostituito la propaganda elettorale. Il
volume, con Prefazione di David Sassoli,
Presidente del Parlamento Europeo, è un’opera di grande interesse che ha
impegnato non poco la curatrice per condurla finalmente in porto: 128 studiosi,
ricercatori, rappresentanti di istituzioni, giornalisti, operatori sociali e
umanitari; 976 giorni di lavoro; 784 pagine; 21 Facoltà, Dipartimenti,
Osservatori e Centri di ricerca; 47 tra fondazioni, istituzioni, associazioni,
onlus, scuole italiane; 4 esempi tra i numerosi Comuni illuminati di un'Italia
pensante. Tante le testimonianze, i modelli di buone pratiche, le proposte su
un tema centrale del nostro tempo.
Il volume ha avuto
una presentazione riservata esclusivamente alla Stampa e ai 128 Autori, lo
scorso 18 dicembre, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. La presentazione al pubblico è
prevista nel prossimo mese di gennaio a Roma, L’Aquila e poi in molte altre
città italiane. Il volume affronta il fenomeno migratorio in tutte le sue
peculiarità e sfaccettature, fornendo un quadro d’insieme di voci e
testimonianze dal quale può ricavarsi un’idea oggettiva e compiuta della
“questione delle migrazioni” che controverte l’enormità delle distorsioni che
da tempo una certa narrazione del fenomeno sta inoculando nella società
italiana. Tutti i contributi sono tessere rilevanti d’un mosaico di conoscenza
che fa piazza pulita di ogni strumentalizzazione, restituendo la dimensione
autentica e vera d’un fenomeno epocale che riguarda e riguarderà per molti anni
il nostro Paese e l’Europa intera. Tra i contributi di cui si compone il volume c’è anche quello
di chi scrive. Parla di una buona pratica a L’Aquila, in una parrocchia della periferia della città, raccontata
in un’intervista da don Dante Di Nardo
parroco a Pettino e in una testimonianza d’un migrante accolto in quella
parrocchia. Con il consenso dell’editore, qui di seguito si riporta il
contributo presente nel libro.
***
L’Aquila,
città accogliente e multiculturale da secoli
Goffredo Palmerini *
L’Aquila è davvero una città magnifica, con una storia singolare sin
dalla fondazione. Nacque infatti nel 1254 con il concorso di 99 Castelli -
secondo la tradizione, ma in realtà furono una settantina - di un esteso territorio,
ciascuno realizzando il proprio quartiere, con chiesa piazza e fontana. Una città
particolare, unica nel Medioevo, nata non per un’aggregazione casuale come le
altre ma secondo un disegno armonico che non trova precedenti nella storia
dell'architettura urbana europea. Solo tre secoli
e mezzo dopo si definisce un caso simile di costruzione d’una nuova città: nel
1703, con la nascita di San Pietroburgo.
La pianta urbana è
pressoché sovrapponibile a quella di Gerusalemme:
novella “città santa” quasi a marcare la cifra della dimensione spirituale che
assumerà. L’impianto urbano è diviso a croce, in quattro “Quarti”, e il
reticolo viario è organizzato secondo lo schema romano del cardo e decumano. La
città palesa subito una sua forza, nello stretto legame tra i cittadini intus moenia e i cittadini extra, rimasti nei Castelli d’origine,
anche nella condivisione della vita civile e politica. Per
tre secoli L'Aquila conosce il suo
migliore splendore. Gode nel regno di un’autonomia spiccata. Ha privilegi fiscali
da marca di confine, batte la sua moneta, ha proprie leggi, intrattiene
commerci intensi con l'Europa vendendo lana, zafferano e il panno aquilano. In
città s'insediano vere e proprie comunità di finissimi maestri artigiani -
impegnati nelle costruzioni di chiese, case e palazzi - e mercanti: francesi, tedeschi,
veneziani, fiorentini, lombardi, albanesi, come testimoniano ancor oggi i nomi
delle vie del centro storico.
A quarant'anni dalla fondazione, L'Aquila vive un evento epocale per la storia della Chiesa, scossa
in quegli anni da gravi turbamenti che Gioacchino
da Fiore e Francesco d'Assisi, nel
secolo precedente, avevano fortemente avvertito, vaticinando un’Era dello
Spirito ed invocando il ritorno ad una Chiesa lontana dal potere e dalla
ricchezza, un'Ecclesia spiritualis.
Il 29 agosto 1294 il monaco Pietro
Angelerio del Morrone, eletto al soglio pontificio il 5 luglio dal Conclave
di Perugia, viene incoronato Papa con il nome di Celestino V nella Basilica di Collemaggio. Giusto un mese dopo l’incoronazione,
il Papa istituisce all'Aquila il primo Giubileo della storia della Cristianità,
la Perdonanza, per chiunque entrerà
nella Basilica di Collemaggio dai
vespri del 28 a quelli del 29 agosto di ogni anno, sinceramente pentito e
confessato, avendo perdonati tutti i peccati commessi sin dal battesimo. Atto
gratuito di riconciliazione con Dio e tra gli uomini che acquista rilevanza
rivoluzionaria, come rivoluzionario sarà il gesto delle dimissioni dal papato
il 13 dicembre 1294.
Un’aura di santità accompagna l’anziano pontefice tornato
umile monaco. L'elevazione agli altari viene invocata già all'indomani della sua
morte, il 19 maggio 1296. La proclamazione di santità per Pietro Celestino
avviene nel 1313. Ma un altro Santo, un secolo e mezzo dopo, avrà forte
rilevanza nella storia dell'Aquila e della Chiesa universale: San Bernardino da Siena. Enorme
l'influsso della predicazione e della presenza del francescano senese. L'Aquila
vive la riforma del francescanesimo, l'Osservanza, direttamente con il propulsore
San Bernardino, e con i suoi confratelli più stretti San Giacomo della Marca e San
Giovanni da Capestrano. Grande influenza avranno i francescani nella crescita
della città, nella sua evoluzione sociale. Bernardino torna per sua ferma
volontà all'Aquila nel 1444, per morirvi il 20 maggio ed esservi finalmente
sepolto.
Ci fermiamo qui nel racconto della storia dell’Aquila,
avendo parlato della spiritualità penetrata nella memoria collettiva della comunità aquilana: i valori del
messaggio celestiniano, che richiamano alla concordia, alla riconciliazione, al
perdono, alla pace, e la forte impronta dell’Osservanza francescana, con una
schiera di Santi e Beati. Non solo ai Celestini e ai Francescani si deve però
questa impronta spirituale aquilana, giacché una straordinaria fioritura di
ordini religiosi e congregazioni ha connotato la vita spirituale all’Aquila,
dai Benedettini ai Domenicani, dai Cistercensi ai Gerosolimitani, dai Minimi agli
Agostiniani, dai Gesuiti ai Filippini, dagli Olivetani ai Barnabiti, tutti importanti
nel consolidare lo spirito di accoglienza e di aiuto verso i bisognosi.
Ma la storia dell’Aquila è costellata anche da terribili
terremoti, almeno cinque i più distruttivi, nel 1315, 1349, 1461, 1703 (il più
grave in perdite di vite umane, 6000 vittime), infine il terremoto del 6 aprile
2009. Da poco L’Aquila
ha fatto memoria del terremoto che dieci anni fa la sconvolse. La città sta
rinascendo, come sempre ha fatto dopo tutti i terremoti devastanti della sua
storia. Sta risorgendo più bella di prima. La ricostruzione della città antica,
uno dei centri storici più vasti e preziosi d’Italia, procede. Come in tutte le
precedenti ricostruzioni grazie a provetti mastri costruttori e raffinate
maestranze artigiane, anche questa volta c’è il concorso di professionalità
giunte da ogni dove, dall’Italia e dall’estero, che la stanno restaurando e
riedificando con tecniche costruttive antisismiche d’avanguardia.
Molti
gli immigrati che lavorano nelle imprese impegnate nella città che risorge, nel
cantiere più grande d’Europa. Passando tra i cantieri e le gru erette a L’Aquila,
nell’intrico medievale di vie vicoli e “coste”, risuonano tra le mura dei
palazzi e sulle impalcature dialetti e inflessioni regionali italiane, ma anche
tanti idiomi ed accenti di terre straniere. Sembra una babele, in un brulichìo
di uomini e mezzi. Ma in fondo c’è una sorta di gradevole armonia nel vociare fecondo
che accompagna la rinascita. Rivive l’antica attitudine dell’Aquila, come nelle
quattro ricostruzioni precedenti, ad accogliere genti venute da ogni dove.
Genti con culture e provenienze diverse, ma sempre poi integrate nella sua
comunità. Nel difficile tempo che viviamo, con epocali migrazioni dall’Africa,
dall’Asia e dal Medio Oriente di popolazioni colpite da guerre, persecuzioni
etniche e religiose, dittature e carestie, dalla fame e dalle conseguenze dei
cambiamenti del clima, in cerca di avvenire nella ricca Europa, un nuovo
umanesimo s’impone nelle politiche di accoglienza e di integrazione dei
migranti.
Stanno
rinascendo stigmi e muri, paure e becere operazioni che le alimentano. La
storia dell’umanità e delle sue migrazioni non sembra insegnare nulla alle
nostre società, sul bisogno di comprendere prima, e poi di governare, i
fenomeni migratori. C’è però chi sa leggere il segno dei tempi, chi sa aprire
alla speranza di un umanesimo nuovo, che sa accogliere e integrare. Le loro
testimonianze sono il sale della terra, l’antidoto alle paure, la visione di un
mondo diverso e possibile, migliore. Il terremoto del 2009 ha esonerato
L’Aquila dai programmi di ripartizione dell’accoglienza agli immigrati,
rifugiati e migranti economici. Eppure, tanti esempi di buone pratiche hanno
costellato questi nostri anni difficili, richiamando l’attitudine aquilana
all’accoglienza, all’ospitalità, all’attenzione verso le culture diverse, in
tante associazioni, parrocchie e nel centro d’accoglienza del Movimento
Celestiniano.
Ne
parlo con don Dante Di Nardo, un prete dell’Aquila alla guida di una
Parrocchia nella periferia della città, la più popolosa delle periferie del
capoluogo d’Abruzzo. Dal 2007 don Dante conduce la Parrocchia di San Francesco
a Pettino. Vi era arrivato da Paganica, dove in 16 anni aveva portato
avanti un lungo percorso di catechesi e pastorale, formando e maturando in
quella comunità parrocchiale una forte consapevolezza all’accoglienza, al
dialogo multiculturale, alla mondialità. Belle esperienze si erano realizzate a
Paganica: l’accoglienza estiva, in più occasioni, di gruppi di ragazzi e
bambini Saharawi, l’ospitalità ai ragazzi di Bucarest che vivevano abbandonati nei
tunnel dei sottoservizi stradali, recuperati con il progetto del francese Miloud
Oukili e da questi formati all’arte circense, altre accoglienze realizzate
con diversi gruppi etnici. Insomma una palestra, per tanti giovani, di
attenzione al mondo, e al mondo del bisogno. Un intenso esercizio durato anni,
per la comunità paganichese, nella sensibilizzazione ai temi dell’accoglienza e
del dialogo interculturale, di apertura al terzo mondo, di educazione alla pace
e all’attenzione verso gli ultimi.
Don Dante, da dove
vogliamo iniziare il racconto dell’accoglienza nella tua esperienza pastorale?
Non saprei da dove cominciare. Parto da una convinzione:
niente si improvvisa e nulla avviene per caso. C’è una mano discreta, un occhio
che vede oltre… e un cuore vigile che silenziosamente depone negli uomini il
seme dei grandi ideali. E aspetta. Aspetta che il seme incontri il terreno
della storia: volti, eventi, fatti, storie… Nascosto nel terreno buono della
storia il seme muore, germoglia e cresce. Potrei cominciare da lontano,
lasciandomi condurre dai ricordi, navigando tra i gesti di un tredicenne che
trascorreva il suo tempo libero in una parrocchia attenta alle storie… Ma forse
è meglio venire all’oggi, al grande desiderio di stare nella storia, negli
avvenimenti che riguardano gli uomini e le donne con i quali condivido un
tratto di strada.
Pensi che per il
cristiano l’attenzione verso chi soffre e verso le persone lacerate dai drammi
del nostro tempo sia un impegno primario per vivere autenticamente la Fede, un
imperativo di umanità e fratellanza verso gli ultimi?
La regola dell’incarnazione vissuta da Gesù Cristo non
permette al cristiano di stare fuori della storia. Risuonano ancora dentro di
me le parole di un vecchio amico e maestro: “Dio opera non nonostante l’umano ma
mediante l’umano”. Questa premessa mi sembra importante per mettere in
evidenza ciò che dirige i miei passi e sostiene le mie scelte.
In questo spirito,
la sensibilità individuale all’accoglienza come può diventare fatto consapevole
di una comunità? Come si forma ed opera una parrocchia che accoglie?
Rispondendo all’appello di Papa Francesco, alcuni anni fa
abbiamo fatto nostro il progetto di Caritas italiana “rifugiato a casa mia”,
coinvolgendo l’intera comunità parrocchiale e alcune famiglie, in particolare.
Da questo primo impegno ne sono nati altri, tuttora in corso: il progetto “Una
casa per ripartire - Casa giovani” e l’accoglienza per richiedenti asilo, in
collaborazione con la Cooperativa sociale L’Ape. “Casa giovani” è una realtà
che accoglie i neo maggiorenni che hanno concluso il percorso nelle
case-famiglia per minori e sono intenzionati a proseguire la formazione
scolastica iniziata precedentemente. Questi giovani, compiuto il diciottesimo
anno di età, usciti dalle comunità, avrebbero dovuto interrompere il loro
percorso scolastico. Mi sono reso conto che questa necessità era ben presente
sul nostro territorio e ho cercato di rispondere come meglio potevo. Ho
iniziato contando sulle sole forze della Parrocchia e sulla buona volontà di
alcuni parrocchiani. In seguito ho interpellato la Caritas diocesana e
nazionale ed il progetto è stato inserito nell’ambito di una attività già
esistente, “Una casa per ripartire - Casa giovani”.
Come avviene
l’ingresso in casa?
La richiesta viene inoltrata alla Caritas diocesana e vagliata
dall’équipe del Centro d’ascolto. Al momento dell’accoglienza in casa usiamo
lanciare una provocazione: “a noi interessa il tuo futuro, se interessa anche a
te cammineremo insieme”. In questo momento sono accolti 9 giovani di diverse
nazionalità (Sudan, Egitto, Mali, Albania), impegnati in diversi settori della
formazione scolastica (università, scuola professionale, scuola media superiore
nel Centro Provinciale Istruzione per Adulti C.P.I.A., Istituto alberghiero). I
giovani sono accolti in una struttura della parrocchia e grazie al sostegno
della Caritas abbiamo la certezza di portare avanti il progetto per i prossimi
due anni. Debbo un grazie grande a tutti i nostri parrocchiani, al nostro
Arcivescovo e alla Caritas.
Mi dici qualcosa
in più sulla cooperativa sociale, sui richiedenti asilo accolti e sulla loro
provenienza?
L’Ape cooperativa sociale è una realtà nata da un gruppo di
volontari della parrocchia. Come tutte le realtà che si immettono nel sociale,
guarda le emergenze che si determinano nella nostra società con una particolare
attenzione alle categorie più deboli. Rispondendo al bando della Prefettura dell’Aquila,
la cooperativa si occupa dell’accoglienza e del percorso d’integrazione dei
richiedenti asilo. Le presenze oscillano da un minimo di 20 ad un massimo di 26
persone. Gli operatori della cooperativa sono 10: mediatore culturale,
psicologa, insegnanti di lingue, assistente sociale, consulente giuridico,
addetti ai servizi. Oltre a queste figure, regolarmente inserite nell’organico
della cooperativa, ci sono i volontari e operatori della Parrocchia. Diverse
sono le nazionalità dei richiedenti asilo: Bangladesh, Pakistan, Palestina,
Iraq, Iran, Somalia, Mali e altre nazionalità africane. Convinti che
l’integrazione passi soprattutto attraverso la molteplicità delle relazioni,
gli operatori si impegnano ad instaurare con ognuno degli accolti un’amicizia
autentica, vera e leale. Assumendosi questo compito, e svolgendolo con spirito
di servizio, gli operatori precedono gli abitanti del quartiere e dei fratelli
della comunità parrocchiale sul cammino dell’integrazione.
Qual è l’impegno
primario e prevalente nella formazione degli accolti?
Un ambito che assorbe gran parte dei nostri sforzi è la
formazione scolastica, dalla prima alfabetizzazione alla capacità di
comprendere, leggere e scrivere la lingua italiana. Le lezioni si svolgono in parrocchia
e, quando è possibile, nel C.P.I.A., mattina e pomeriggio. Nella realizzazione
di questo servizio i componenti della cooperativa sono coadiuvati dai volontari
della parrocchia e dai giovani del servizio civile in essa presenti. È
superfluo sottolineare che la maggior parte dell’insegnamento, date le
diversità e la disparità del livello culturale, è diretto verso interventi
personalizzati.
Quali sono i
principali momenti di socializzazione?
Alcuni momenti belli che accomunano le due modalità dell’accoglienza
si realizzano con la condivisione dei pasti e dei servizi, la frequenza alle
attività dell’oratorio, le giornate ludico-formative - giornata della
gratitudine, giornata ecologica, ecc.-, le gite culturali (Roma, Assisi,
Foggia, Matera), la scoperta e conoscenza della nostra città e del nostro
territorio. Un momento non strutturato, ma “sbriciolato” in ogni ambito di
attività, è l’ascolto del “vicendevole raccontarsi”. Quanto coraggio! Quante
ferite! Quante guarigioni! Quanti corpi sepolti nel deserto, e quanti visti
galleggiare nel mare. Quante speranze coltivate da chi parte e quante attese
racchiuse nel cuore di chi resta! Quanta gioia nel ricominciare a L’Aquila
un’amicizia interrotta nell’infanzia, in Iraq! Ascoltando i racconti di
Mohamed, Suleman, Ibrahim, Kalifa, Chatok… si può percepire l’odore che sale da
quella “terra” nella quale l’aratro, con violenza, ha tracciato il solco.
Solchi aperti, pronti ad accogliere il seme di una umanità nuova, autentica.
Quanta responsabilità ci sta dando chi guida la storia!
Quali valutazioni
trai da queste esperienze vissute a contatto con i migranti?
Non sono un idealista con la testa tra le nuvole. Anche se
desidero un mondo senza confini, conosco tanti recinti e so quanto è forte il
desiderio di abitarvi dentro. Vedo tanti muri e, in certi momenti, mi sembrano
più rassicuranti degli spazi sconfinati. Vedo la terra che abito e sono tentato
di farla mia. Guardo la patria, genitrice della mia identità, e faccio fatica a
pensarla ugualmente madre di altre identità. Non sono un illuso sognatore,
conosco il male: lo sento in me, lo sperimento intorno a me, lo vedo fuori di
me e nella storia. Non sono nato ieri. La notte non dormo coltivando il sogno che all’alba del nuovo
giorno vedrò “il lupo dimorare insieme con l'agnello, la
pantera sdraiata accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascolare
insieme guidati da un fanciullo” (cfr. Is 11,6). Ho piena coscienza del
travaglio che dovrà attraversare questa generazione e le altre che ci
seguiranno. Nonostante ciò, sono convinto che bisogna osare. Bisogna
abbandonare l’umana ragionevolezza che blocca i desideri e dare spazio
all’umanità che preme per realizzarli. Bisogna farsi voce di uomini e donne in
cammino verso la piena umanizzazione. Chi può accompagnare l’umanità in questo
cammino, se gli uomini e le donne di questa generazione ci rinunciano? Desidero
solo ringraziare di cuore il vice parroco e tutti i volontari e collaboratori
della Parrocchia. Una squadra straordinaria, altruista e generosa, premurosa e
amorevole. Senza di loro nulla sarebbe possibile.
Don Dante, tra i ragazzi che accogliete,
mi interesserebbe conoscere una storia. Immagino che tutte le storie di questi
ragazzi siano un combinato di ferite, materiali e morali. Possiamo prenderne
una da raccontare?
Potremmo
sentire Ibrahim. E’ un giovane che ha fatto da poco 18 anni, porta ancora
ferite dentro, ha un po’ difficoltà con la lingua, ma riesce a farsi capire. Lo
chiamo.
***
Ibrahim
arriva. E’ un giovane di colore, di media statura, gli occhi espressivi, il
volto scavato come di chi ha già vissuto una vita. Ma disponibile ad un sorriso
quasi riservato, prudente di timidezza. Sono due anni che sta ospite alla
Parrocchia di Pettino. Originario del Gambia, piccolo Paese dell’Africa
occidentale, una striscia di terra al confine con il Senegal, con un piccolo
tratto di costa sull’Atlantico, era analfabeta fin quando non è arrivato
all’Aquila. Gli parlo un po’, per entrare in empatia. Ma è Don Dante che ha le
chiavi del cuore di tutti, con lui tutti si aprono, come a un fratello
maggiore. Anche Ibrahim, con la sua sofferente discrezione, cede al racconto,
fatto di parole stentate ma soprattutto di silenzi, velati di malcelata
commozione…
Gli chiedo, se
vuole, e se si sente, di raccontare la sua storia di migrazione.
«Sono nato in una umile e povera
famiglia, in un villaggio del Gambia. Sono rimasto orfano di entrambe i
genitori. La mia mamma è morta quando avevo 4 anni, mio padre quando ne avevo 6.
Sono cresciuto con l’aiuto di alcuni parenti, ma le condizioni di povertà e di
fame mi hanno convinto che là nel mio villaggio non potevo vivere e
sopravvivere. Quando avevo 14 anni ho lasciato il mio Paese. Sono partito da
solo. Sono arrivato in Italia due anni fa, il 24 maggio 2017. Ora ho 18 anni.
Ho attraversato a piedi o con mezzi di fortuna molti Paesi africani, dove mi
sono fermato in ciascuno alcuni mesi. Lavoravo per sostenermi e per mettere da
parte qualche soldo. In Senegal ho fatto il giardiniere, ma ho lavorato anche
quando sono andato in Mali, dove facevo piccoli lavori di facchinaggio, e in
Burkina Faso, addetto a carico e scarico dai mezzi di trasporto. Sono stato più
di un anno in questi tre Paesi. Poi, volendo raggiungere la Libia, sono andato
in Niger, facendo anche lì lavori occasionali. Poi, con altri che volevano
andare in Libia, abbiamo attraversato il deserto del Niger dietro carovane o in
camion. Infine abbiamo fatto in camion il lungo viaggio nel deserto libico. In
Libia ho fatto lavori di fortuna, poi ho lavorato come manovale con un padrone
che aveva un’attività nell’edilizia. Un giorno, però, sono venuti nel luogo
dove avevo un posto per dormire alcuni agenti della polizia. Hanno rovistato
tutto, mi hanno preso i soldi che avevo messo da parte, mi hanno picchiato con
violenza perché volevano sapere se avevo altri soldi. Quindi mi hanno preso e
portato in un campo di detenzione dove ho passato due mesi terribili.»
Chiedo ad Ibrahim se vuole dirmi qualcosa di più sulla sua prigionia.
Fa un cenno di diniego e si chiude in silenzio. Poi riprende…
«Un giorno i nostri carcerieri hanno
preso un gruppo di quelli che eravamo nel campo, tra i quali anche io. Siamo
stati portati su una spiaggia deserta, lontana da centri abitati. Siamo stati
lasciati soli, ma ci hanno detto che sarebbe venuta una barca. Era quasi sera
quando è arrivato un barcone a prenderci. Non avevamo da mangiare e solo poca
acqua a disposizione. Siamo andati a largo. Abbiamo navigato tutta la notte e il
giorno seguente, fino a quando il barcone non si è fermato, senza più
carburante, restando in balia del mare. Siamo rimasti due giorni alla deriva,
poi ci ha soccorso una nave italiana, era di sabato. Ci hanno recuperato, ci
hanno dato acqua e da mangiare. Il giorno dopo, di pomeriggio, siamo arrivati
in porto, a Lampedusa. Siamo rimasti quattro giorni nell’isola, poi chi hanno
portato in Sicilia e là ci hanno fatto salire su un autobus che ci ha portato a
L’Aquila. E’ venuta a prendere alcuni di noi la Cooperativa Ape, che ci ha
assistito alla Questura, anche per presentare la richiesta di asilo. Qui nella
Parrocchia di Pettino, insieme agli altri ragazzi, ci stanno insegnando la
lingua italiana. Mi trovo molto bene. Don Dante mi dice sempre che la scuola e
l’istruzione sono molto importanti, come imparare un mestiere, anzi di più. Ho
lavorato un po’ anche al mercato dell’Aquila, a Piazza d’Armi. Ho una grande
speranza di migliorare e la fiducia in chi mi sta aiutando, accogliendomi come
un fratello. Spero di poter rimanere in Italia e ancor più a L’Aquila, dove mi
trovo molto bene. Qui ho imparato a leggere e scrivere, a parlare italiano.
Vorrei lavorare come giardiniere e costruirmi un futuro».
Don Dante mi informa che la domanda come
richiedente asilo di Ibrahim è stata respinta, ma è stato proposto appello. Con
la speranza che il futuro per questo giovane africano si possa aprire, perché
il passato è stato lacerante e non richiama altro che miseria e dolore.
* Giornalista e scrittore