di Nicola F. Pomponio
Il
godibilissimo testo che si presenta è una raccolta di articoli che lo scrittore
abruzzese pubblicò negli anni Quaranta e, con un salto di tempo, nei primi anni
Settanta. Ennio Flaiano esercita qui
le sue ben note capacità analitiche e descrittive che lo hanno collocato tra
gli esempi più interessanti della letteratura italiana novecentesca. La brevità
degli scritti e la chiarezza cartesiana di una prosa limpida e mai cedevole
alle tentazioni della retorica sono alcuni elementi caratteristici degli
articoli riprodotti. Si conosce bene il Flaiano ironico osservatore della
quotidianità, ma queste pagine ci tratteggiano un autore non solo ironico o
talvolta sarcastico, ci restituiscono uno sguardo fortemente empatico verso
l’umanità dolente.
Flaiano fa notare i
dettagli, i piccoli particolari che aprono una via maestra alla comprensione
dei grandi avvenimenti. Quando la parabola del fascismo è riassunta nei tipi di
copricapi indossati dal duce, l’annotazione non è solo di costume ma apre la
mente a riflessioni che giungono al cuore stesso del fenomeno storico,
segnandone la vuotezza d’idee, la disponibilità al compromesso con i più forti,
la retorica, la infausta alleanza col nazismo. E’ il particolare che rivela il
tutto e questo particolare diventa più significativo di un’infinità di parole.
Flaiano si segnala in tal
modo come un grande antidoto a tanti vecchi vizi italici, a cominciare dalla
retorica, ed è questo aspetto che rende attuali i suoi scritti; leggendoli si
scopre quanto di ciò che si credeva passato è ancora ben presente nel
quotidiano attuale e quanto ancora si può vivere nell’oggi i vizi di ieri. Dal
tifo calcistico alla ricerca disperata dell’evasione, dai manifesti interni ai
teatri alla mania delle crociere, dalle motociclette al traffico
automobilistico emerge quell’Italia, eternamente Italietta, che meno ci piace
vedere e da cui facilmente, troppo facilmente, distogliamo il disgustato
sguardo.
Ma
l’ironia di Flaiano non provoca
disgusto bensì amarezza: vi è sempre un elemento di dolore nel constatare lo
scarto tra ciò che è e ciò che potrebbe/dovrebbe essere. L’ampio periodo
temporale proposto dalla raccolta permette così di evidenziare una sorta di
presenza costante di alcune caratteristiche negative nella vita italiana che il
miracolo economico non solo non ha lenito ma, se possibile, ha ingrandito.
Quando viene notata la totale inadeguatezza del tessuto urbano dei centri
storici al traffico moderno, Flaiano, con decine di anni di anticipo, denuncia
ciò che tutti (in primis amministratori e politici) sapevano bene ma che tutti
fingevano di non vedere.
La
modernità non solo non migliora l’italica popolazione ma ne esalta i lati
peggiori e diventano in tal modo gustosissime le annotazioni fatte sulle
motociclette. Ma attenzione. La critica della motocicletta, vista quasi come la
summa dell’arroganza e della spacconeria italiana, ha un contraltare letterario
“alto” se pensiamo che solo una cinquantina d’anni prima i futuristi e Marinetti avevano affermato la
superiorità estetica dei tubi e dei motori rispetto alla “Vittoria di
Samotracia”!
Flaiano è un profondo
conoscitore non solo dell’attualità ma anche, e forse soprattutto, della
cultura e per questo dietro ogni annotazione che potrebbe risultare solo un
brillante aforisma si cela un “sovrappiù” di senso che colora il particolare
della grandezza dell’universale. Leggendo il testo torna alla mente l’invito di
Oscar Wilde a cercare la profondità
nella superficie con la differenza che lo scrittore abruzzese non è un dandy “fin de siècle” ma un uomo che attraverso
l’esperienza del fascismo, della guerra e della ricostruzione ha visto il
proprio paese mutare pelle ma non assolutamente sostanza, quella sostanza che
oggi ritroviamo intatta in una quotidianità per certi versi ancor più
involgarita e incattivita del passato.
La
constatazione della permanenza di caratteri negativi non induce però mai
l’autore a un sarcasmo senza speranza e, in fin dei conti, misantropo. Flaiano
non è Swift e a differenza di
quest’ultimo in tutte le pagine emerge una vicinanza, attraverso l’ironia, al dolore
umano. Sono illuminanti così le descrizioni quasi da pagine veriste degli
sfollati, della desolazione del dopoguerra, della atavica resistenza ai
disastri dei conflitti degli uomini e dei contadini abruzzesi in primis. Sono
pagine intense dove l’autore non cede mai né a un sentimentalismo romanticheggiante,
né ad una facile retorica populistica: Flaiano
osserva, descrive e nell’osservazione e nella descrizione fa emergere,
spontaneamente, senza nemmeno citarlo, il dolore degli uomini e la loro
caparbia volontà di continuare a vivere.
In
ciò si avvicina a un altro grande autore abruzzese da lui espressamente citato:
Ignazio Silone. Come in questi,
Flaiano non vede nei “cafoni” il bene per definizione, conosce nel dettaglio
tutti i limiti di esistenze passate nello sfiancante lavoro della terra, conosce
le ristrettezze, anche mentali, del mondo contadino ma ciò non gli impedisce di
provare una grande com-passione, un sentire comune verso chi soffre, senza per
questo idealizzarlo. Così gli articoli scritti nella Roma o nell’Abruzzo del
periodo 1944-47 ci sembrano di grande interesse non solo per valutare da vicino
gli enormi problemi della ricostruzione ma anche la permanenza di caratteri
italici di dubbio valore; diventa così chiarificatore l’annotazione sulla
quantità sospetta di nuovi antifascisti: “C’è
molto traffico sulla via di Damasco e troppi Saul si disarcionano al minimo
scarto dei loro cavalli”.