Il testo che si presenta è un agile quanto
denso saggio di linguistica che parte da un presupposto decisamente spiazzante.
Ciclicamente si assiste alla solita, e spesso sterile, polemica sull’utilità
dello studio del latino nelle nostre scuole, essendo considerata la lingua di Cicerone una “lingua morta”.
Lorenzo Tomasin, con una tesi tanto
interessante quanto paradossale, interpreta le lingue romanze non come derivate
dal latino ma come “la sua (del latino) varia trasformazione nel tempo e nello
spazio” (pag. 6). A sostegno di questa tesi riporta un esempio interessante: il
10 giugno 1898 moriva Tuone Udaina,
l’ultimo uomo al mondo a parlare il dalmatico, una lingua neolatina che con lui
si estinse. Noi però non solo non conosciamo l’ultimo uomo a parlare latino che
certifichi, in tal modo, la morte di questa lingua, ma milioni di persone nel
mondo parlano “lingue romanze [che]… altro non sono che il latino stesso nella
sua naturale e ininterrotta sopravvivenza attraverso il tempo e lo spazio”
(pag. 7). Il latino quindi non è morto ma si è semplicemente trasformato ed è
sopravvissuto nelle lingue romanze in cui continua a operare, a manifestarsi e
a trasformarsi.
A partire da questa interessante tesi che
supera d’un colpo le discussioni sull’insegnamento del latino (studiare ad
esempio il castigliano vuol dire studiare una moderna e particolare
manifestazione del latino!), l’autore ci conduce con precisa e stimolante
ricostruzione sia attraverso la storia della linguistica romanza sia attraverso
i molti tentativi di interpretazione del fenomeno linguistico in senso ampio.
Le lingue ci appaiono così come un mutevole, proteiforme sempre inafferrabile
fenomeno di cui la ragione umana fatica a venirne a capo; come suggerisce il
titolo siamo di fronte a un “caos” linguistico che gli studiosi cercano di
ricondurre a un “ordine”. Da un lato il tentativo di regolare la parlata
all’interno di schemi e regole, dall’altro la quotidiana espressione, spesso
non particolarmente attenta alle regole ma che, altrettanto spesso, sulla lunga
durata, crea, con l’uso, nuove regole, nuove parole, nuove costruzioni non
previste dalle sistematizzazioni regolatrici.
Il testo quindi si articola, coerentemente,
intorno ad una serie di capitoli (analogia/anomalia, diastole/sistole,
lessico/grammatica, eccezione/regola, antico/moderno, natura/storia) in cui
emergono polarità in tensione tra loro, con molte sfumature intermedie, ma che
insieme tentano di rendere conto di quel processo per certi versi sorprendente
che è il linguaggio umano. Sotto gli occhi del lettore scorre così sia
l’affascinantissima storia della riflessione sulla lingua latina e sulle sue sopravvivenze
moderne, sia, con finezza di ricostruzione e passione mai prevenuta, i
dibattiti, gli scontri, gli approfondimenti, le conquiste della linguistica in
generale. Questi due diversi filoni sono sapientemente declinati all’interno
delle polarità poc’anzi indicate e rendono vivace e piacevole la lettura di un
testo originalmente fecondo di riflessioni. Due piccole annotazioni a margine.
Il libro termina con un motivato rovesciamento
di quello che è un presupposto di molta linguistica: non solo la lingua è
storicamente determinata, ma è la storia stessa ad essere un fenomeno
linguistico. Una tesi interessante che andrebbe collocata, ma il taglio
strettamente linguistico del saggio ovviamente non lo permette, in tutto
l’amplissimo panorama filosofico del Novecento ove non solo l’ermeneutica
assume un ruolo filosofico centrale nel pensiero di vari autori (Heidegger,
Gadamer, Wittgenstein, Ricouer e molti altri) ma si riconosce espressamente che
“il linguaggio non è solo una delle doti di cui dispone l’uomo che vive nel
mondo; su di esso si fonda, e in esso si rappresenta, il fatto stesso che gli
uomini abbiano un mondo” (Gadamer, “Verità e metodo”).
La seconda riflessione attiene più alla
discussione sulle lingue neolatine. Tomasin
cita un grande e mai abbastanza studiato autore tedesco del Novecento: Ernst Robert Curtius. L’opera di
Curtius con la sua investigazione accuratissima dei cosiddetti “topoi” (metafore
e temi ricorrenti) nella letteratura latina, nel periodo che va dal V secolo a
Dante, rappresenta uno snodo fondamentale sia nella conferma della originale
tesi secondo cui il latino non è mai morto, sia nella riemersione di un
sostrato culturale comune a tutta l’Europa che ancor oggi, molto spesso a
nostra insaputa, agisce nel nostro operare, plasmandolo in caratteri che
superano l’ambito delle lingue nazionali e assurgono a peculiarità europee.
Nicola
F. Pomponio