Solo un esperto di ricerca
scientifica a livello di informatizzazione digitale poteva presentare la
diagnosi d’un micro-campo di concentramento come quello di Casoli. Uno dei quattordici campi di internamento, in Abruzzo, delineati nel libro “I campi del duce” di Carlo Spartaco Capogreco, che affronta
per la prima volta e con particolare attenzione l’internamento civile
nell’Italia fascista (1940-1943). Giuseppe
Lorentini, sia perché nativo di Casoli e, soprattutto, storico affermato
per i suoi studi, offre una panoramica rigorosa del campo, in tutti i suoi
aspetti, come un piccolo mondo. Perfino, in appendice, con l’elenco dei singoli
personaggi, per conservarne la memoria. Certamente sulla base dello slogan di
storici alla Lucien Febvre, Fernand Braudel o Marc Bloch, “La storia è l’uomo”. In linea con quanto ha affermato Jacques Le Goff di quest’ultimo: “Marc
Bloch è un affamato, un affamato di storia, un affamato di uomini nella storia.
Lo storico deve avere un buon appetito. Egli è un mangiatore di uomini”.
Lorentini sostiene, giustamente,
che la storia dei campi di internamento in Italia è nata da poco, una ventina
d’anni, sull’esempio delle ricerche di Carlo
Spartaco Capogreco sul campo di Ferramonti, Costantino Di Sante, Gianni
Orecchioni, Anna Pizzuti, ecc. C’era
stato un libro autobiografico, sul campo di Lanciano, di Maria Eisenstein, dal titolo “L’internata
numero 6”, pubblicato a Roma nell’ottobre del 1944, rimasto sconosciuto,
oggi a cura di Capogreco, che meriterebbe di essere un testo scolastico, non
meno di “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
Il libro di Lorentini si apre con
una Introduzione che tende a specificare il concetto e la terminologia di campo
di concentramento e di universo concentrazionario, per poi trattare della
storia sociale di un campo di concentramento fascista tra teoria e documenti. Il
campo di Casoli fu adibito per due
tipi di internati, in due periodi diversi: ebrei internati e internati politici
jugoslavi. L’esposizione dei dati e delle formalità burocratiche viene
riportata con una documentazione d’archivio che impressiona, per la solerzia e
l’acribia che caratterizza l’autore. Anche solo i numeri sono tali da rimanerne
sotto choc: 4500 documenti in 215 fascicoli. Numeri che comunque potrebbero
restare tali, senza una necessaria e corretta interpretazione storica. Un lavoro
emblematico per successive ricerche sui vari e numerosi campi per internati,
creati durante il fascismo.
Al contrario, la storia dei campi
di concentramento per i prigionieri di guerra (POW) ha una sua specificità, a
motivo del numero dei prigionieri che in Abruzzo, con tre grandi campi di
prigionia, raggiungeva il numero di oltre diecimila, secondo lo storico inglese
Roger Absalom (L’alleanza inattesa: mondo contadino e prigionieri alleati in fuga in
Italia 1943-1945, Uguccione Ranieri
di Sorbello Foundation, ed. Pendragon, Bologna 2011). Una storia che ha trovato
in particolare le testimonianze scritte dagli stessi prigionieri, come avvenuto
per il Campo 78 di Fonte d’Amore a Sulmona. Se nei campi di concentramento per ebrei
e civili mancava il filo spinato, per i campi di concentramento il filo spinato
era l’elemento caratterizzante. Per questo una delle testimonianze di un ex
prigioniero, John Fox, ha per titolo “Spaghetti
and barbed wire” (“Spaghetti e filo spinato”). Due trattamenti notevolmente
diversi tra le due specie di campi se lo stesso Fox, ricordando la vita del
campo, scrive: «What a miracle it would be if such
camaraderie, esprit de corps, call it what you will, prevailed in everyday
life. The world would then indeed be a step nearer the ultimate Utopia of our
cherished dreams (Che miracolo sarebbe se un simile cameratismo o spirito
di corpo, chiamatelo come volete, prevalesse nella vita quotidiana. Il mondo
allora davvero sarebbe un passo più vicino all' ultima Utopia dei nostri sogni
più cari)».
Se la storia è lo studio dell’uomo,
nelle sue diverse sfaccettature, non può che aiutarci a conoscerlo. Una scienza
in cammino, anche se ancora nell’infanzia, come rilevava Marc Bloch, che
affermava: «La
storia deve rinunciare alle false arie di arcangelo, aiutandoci a guarire da
questo difetto. Essa è una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo
incontro fra gli uomini».
Proprio il caso Casoli, il paese come tale, è simbolo di questo incontro tra
uomini, perché non è stato solo luogo del campo di concentramento per internati,
ma anche punto d’arrivo dei prigionieri di guerra che fuggivano dai campi di
concentramento per raggiungere il comando alleato, che aveva conquistato il
paese nell’autunno del 1943. Migliaia di persone, dal settembre 1943 al giugno
1944, affrontarono il sentiero della Libertà, partendo da Sulmona e giungendo a
Casoli. Scrive Fox: «Del
gruppo di cento uomini che si erano messi in marcia, alle quattro di pomeriggio
del 13 gennaio, arrivarono a Casoli alle 11 del mattino del 15 gennaio, dopo un
cammino di 36 ore, 47 uomini e 22 di essi furono ricoverati in ospedale per
congelamento o per spossatezza. Non sono mai stato in grado di sapere che cosa
accadde agli altri».
E, come lui, Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica Italiana, partito
il 24 marzo 1944 e che raggiunge
Casoli il 26 marzo: «Dopo una notte insonne seguita ad una fatica eccezionale,
alle dodici siamo portati a Casoli, dove al castello esiste un accantonamento
per i “refugee from enemy territory”
costituito da una specie di largo corridoio coperto ai due lati da uno strato
di paglia. Là donne e uomini, giovani e vecchi: quando arriviamo noi hanno da
poco portato via un morto. Lì possiamo finalmente dormire, se pure al meglio»
(cfr. “Terra di Libertà, storie di uomini
e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”, a cura di Maria
Rosaria La Morgia e Mario Setta). I prigionieri di guerra nei campi non
subivano “l’ozio coatto”, come il
titolo del libro di Lorentini. Tra l’altro, termine usato spesso dagli stessi
internati. Nei campi Pow era possibile leggere libri, studiare l’Italiano,
frequentare lezioni, divertirsi in diversi giochi, scrivere e ricevere lettere,
comunicare notizie (cfr. “The Sulmona Sun”,
giornalino di campo), ecc. La coazione dell’ozio era la forma più grave per
distruggere la persona, dal momento che l’otium,
nell’antichità, era il tempo libero, il tempo di studio per elevare la propria
dignità.
Una ricerca storica a largo raggio, di genere macroscopica, potrebbe
trovare documenti o testimonianze sul rapporto tra i vari personaggi che in
quei tre-quattro anni furono a Casoli.
Nel libro sulla vita di Rita Rosani,
“Non era una donna, era un bandito”, Livio Isaak Sirovich scrive: «L’8 settembre 1943 si sparge la notizia
dell’armistizio. Ma la situazione degli ebrei internati resta
inalterabile. Il 2 novembre 1943 Salo, Eige, Kubi e gli altri internati di
Castelfrentano “si lasciano prendere docilmente”. La mattina del 3 novembre
trasferiti alla fornace Crocetta. Poi al campo dei prigionieri di guerra di
Chieti Scalo. Vi rimangono fino al 20 novembre, affermando che “i soldati
tedeschi ci trattavano veramente bene”. Trasportati da Chieti a L’Aquila. Da
L’Aquila a Bagno a Ripoli vicino Firenze. A San Vittore. Infine ad Auschwitz».
Un calvario. Avrebbero potuto evitarlo, ma nessuno sembra sia stato capace di
salvarli. Per i prigionieri di guerra si è parlato e si parla di “Resistenza
Umanitaria”. Un fenomeno tipico abruzzese, che lascia un segno di ottimismo
umanitario nella storia della seconda guerra mondiale.
Per l’Associazione “Il Sentiero della Libertà/Freedom
Trail”
Maria Rosaria La Morgia, Presidente
Mario Setta, storico