Si
verifica a volte per alcune persone che espressioni, atteggiamenti, scelte,
persino “tic” riferiti alla loro vita privata, rivelano la qualità morale del
loro carattere più di quanto avrebbe
potuto fare un trattato o una conferenza. È questo il caso di Emmanuel Mounier.
Poche
settimane prima della sua morte (avvenuta nel 1950, a soli quarantacinque anni,
maturo per il Cielo e per la terra), così scriveva ad un suo amico: « Sono un
“intellettuale”. Questa parola richiama alla mente un certo numero di atrofie e
di “tic”. Mi guarderò dal credermene esente. Ma spesso ripenso con riconoscenza
ai miei quattro nonni contadini, veri contadini tutti e quattro, con le scarpe
infangate, la levata alle tre ed una fetta di salame in mano. […] Quando mi
ribello all’ipocrisia, alle espressioni ampollose, alle piroette o, sull’altro
versante (l’Università), all’agghiacciante atteggiamento di sussiego avverto
uno dei nonni che reagisce in me, il suo
sano realismo che mi scorre nelle vene, l’aria dei suoi campi che purifica i
miei polmoni […] ». E a un altro amico, nel 1936, confessando di sentirsi un
montanaro, si paragona all’acqua di un lago di montagna :
«
Nessuna increspatura alla superficie, una limpidezza disumana, ma il torrente
rumoreggia sul fondo […]. Temperamento diseguale, di gusti nativi, insomma
impulsivo, e fatto più per la contemplazione libera del cielo e della terra che
per le iniziative e i dogmatismi » .
Nasce a
Grenoble nel 1905. Dapprima si iscrive alla facoltà di Farmacia, per seguire la
professione del padre; poi, divenuto cosciente della sua vera vocazione, passa
al corso di Filosofia. Il padre, per nulla sorpreso, lo presenta a Jacques
Chevalier (1882-1962), che era stato assistente di Henry Bergson
(1859-1941), e che in quegli anni insegnava all’Università di Grenoble, con queste parole: « Professore, ecco mio
figlio, che vuole studiare filosofia per fare apostolato ». Si laurea
brillantemente, per poi proseguire gli studi alla Sorbona di Parigi ed ottenere
l’abilitazione all’insegnamento, piazzandosi, nel relativo concorso, al secondo
posto, dopo Raymond Aron (1905-1983). Per un po’ di anni insegna
filosofia nei licei, avendo cura di scegliere le scuole non statali, che a quel
tempo assicurano maggiore libertà intellettuale. Nel 1924 aveva conosciuto Jean
Guitton (1901-1999), anche lui ex allievo di Chevalier, che gli sarà
compagno di passeggiate e di istruttivi incontri comunitari nei boschi vicino a
Grenoble, alla ricerca di orizzonti nuovi da schiudere all’impegno sociale e
culturale di giovani e un po’ inquieti pensatori cattolici.
Agli
inizi degli anni trenta risale il suo incontro con Jacques Maritain,
(1882-1973) più vecchio di lui di una ventina d’anni: un’amicizia che rimarrà
forte e leale anche nelle divergenze. È molto attivo, in questo scorcio di
tempo, come pubblicista nel campo dell’impegno cristiano nella scuola. Nel
1932, dopo vari incontri di preparazione, fonda la rivista dal significativo
titolo di « Esprit » , di cui sarà direttore ed infaticabile animatore,
scegliendo « un cammino senza ritorno » e rinunciando alla carriera accademica.
Nel 1935
sposa con Henriette Leclercq (1905-1991), che sarà la compagna di una
vita, in un rapporto forte e reso ancor più spiritualmente fecondo dalla
sofferenza. Nello stesso anno pubblica il volume Rivoluzione personalista e
comunitaria, dove raccoglie i principali contributi apparsi su « Esprit » ,
nonché il saggio Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana,
scritto che illustra il programma sociale di quel movimento personalista a cui
ha dato vita. Seguiranno altri scritti, politici e filosofici, tra i quali un
saggio sul pensiero di Charles Péguy
(1873-1914), un altro sull’esistenzialismo, un trattato di psicologia
sul carattere.
Ma cerchiamo di comprendere i tratti
fondamentali del suo pensiero personalista.
Nel
primo numero di « Esprit », in un articolo dal titolo Rifare il Rinascimento,
egli spiega in che cosa consiste la rivoluzione che propone. « Il Personalismo
– egli scrive – è uno sforzo integrale per comprendere e superare la crisi del
secolo XX nella sua totalità ». E questo, a suo avviso, sarà possibile solo a
patto che al centro della discussione teorica e dell’azione pratica si ponga la
persona. Ma in che cosa consiste il concetto all’apparenza semplice di
persona?
Ebbene,
innanzi tutto, « la mia persona – afferma Mounier in Rivoluzione personalista
e comunitaria - non è la
coscienza che io ho di essa. Ogni volta che io compio un atto di
prelevamento della mia coscienza, che cosa prelevo? Il più delle volte, se non
mi tengo ben saldo, prelevo solo frammenti effimeri d’individualità, labili
come l’aria del giorno » . Né la persona si identifica, per il nostro
pensatore, con quei personaggi che siamo stati in passato e che sopravvivono in
noi per forza d’inerzia o per vigliaccheria; personaggi che ci illudiamo di
essere, perché li invidiamo, e permettiamo loro di modellarci secondo quanto vuole
la moda. Sono i nostri capricci. Se andiamo più a fondo nell’analisi di noi
stessi, scopriamo i nostri desideri, le nostre volontà, le nostre speranze. Ma
nemmeno tutto ciò costituisce ancora la nostra persona. « La mia
persona – conclude Mounier – non coincide con la mia personalità.
Essa è al di là del tempo, è un’unità data, non costruita, più vasta delle
visioni che io ne ho, più intima delle ricostruzioni da me tentate. Essa è una presenza
in me » .
Dopo
aver dimostrato che la persona è inoggettivabile, egli specifica che essa « è
il volume totale dell’uomo […] ; è in ogni uomo una tensione fra le sue tre
dimensioni spirituali: quella che sale dal basso e l’incarna in un corpo;
quella che è diretta verso l’alto e la solleva a un universale; quella che è
diretta verso il largo e la porta verso una comunione. Vocazione,
incarnazione, comunione sono le tre dimensioni della persona » .
Da
questa rigorosa definizione per così dire “teorica” del concetto di persona,
deriva all’uomo una altrettanto rigorosa norma di comportamento. L’uomo è
chiamato a meditare sulla propria vocazione, vale a dire sul posto che deve
occupare, e sui suoi doveri nella comunione universale. E siccome, d’altra
parte, la persona è sempre incarnata in un corpo (siamo sempre anche corpo) e
situata in precise condizioni storiche, di conseguenza « il problema non sta
nell’evadere dalla vita sensibile e particolare, che si svolge tra le cose, in
seno a società limitate, attraverso gli avvenimenti, ma nel trasfigurarla » . Inoltre,
la persona, per raggiungere se stessa, deve donarsi alla comunità superiore,
che chiama ed integra le singole persone. Da ciò risultano – conclude il nostro pensatore – i tre
esercizi necessari per arrivare alla compiuta espressione della persona : 1) la
meditazione, per la ricerca della propria vocazione; 2) l’impegno, vale a dire
l’adesione ad un’opera che è riconoscimento della propria incarnazione; 3) la
rinuncia a se stessi, che è iniziazione al dono di sé e alla vita in altri » .
Se la persona manca di uno solo di questi esercizi, è lo scopo stesso
dell’esistenza a venir meno.
Un
impegno personale così rigoroso reclama una politica adeguata, che non può che
essere una politica che guardi all’uomo nella sua interezza, materiale e
spirituale. Sotto questo aspetto, Mounier rifugge, come si può intuire, sia dall’astratto moralismo, che è
l’atteggiamento di chi, in buona o cattiva fede, si illude di cambiare la
società cambiando gli individui, sia dall’idea, propria del marxismo (oggi, per
la verità, sostituita da un generico e confuso sociologismo), che consiste nel
credere che cambiando le strutture sociali l’uomo sarà salvo.
Ciascun
lettore potrà giudicare se e in quale misura questa visione antropologica, che
affonda le sue radici nel messaggio evangelico, ma che non disprezza il valore
della cultura e della scienza, e che si pone in un atteggiamento di apertura
verso il mondo e la storia, anticipando in questo un atteggiamento che sarà
fatto proprio dalla Chiesa nel Concilio Vaticano II (visione che Mounier
propone e che io mi sono sforzato di sintetizzare nei suoi elementi essenziali)
sia in grado di confrontarsi con i problemi posti dalla società odierna. A me
pare che in questa idea personalista ci sia una verità sull’uomo che prescinde
da ogni riferimento cronologico.
Qualche
annotazione, infine, per meglio comprendere la “persona” di Emmanuel Mounier.
La sua prima figlia, Francoise, si ammalò dopo una vaccinazione antivaiolosa,
cadendo in uno stato di incoscienza. Subito apparve chiaro che la piccolo era
condannata a vivere « in una misteriosa notte dello spirito » . Appresa la
notizia, Mounier scrive alla moglie: « Che senso avrebbe tutto ciò se la nostra
bimba non fosse che un batuffolo di carne sprofondata non si sa dove, un
frammento di esistenza senza senso e non
già questa bianca, piccola ostia che tutti ci supera, un’immensità di mistero e
d’amore che ci abbaglierebbe se si mostrasse ai nostri occhi? […] Dal mattino
alla sera, non pensiamo a questa sofferenza come a qualcosa che ci viene tolto,
ma come a qualcosa che doniamo, per non essere da meno di questo piccolo Cristo
che è fra noi, per non lasciarlo solo, lui che deve attrarci, per non lasciarlo
solo a soffrire con Cristo » .
Che cosa
si può aggiungere alle stupende parole di questo cristiano coraggioso ? Mounier, inoltre, visse povero.
Volle
non certo a caso chiamare la sua rivista “Esprit”, che in francese significa
“spirito”, ciò che per lui veniva prima della materia, benché, come ho cercato
di far comprendere, fosse disposto a riconoscere alla dimensione materiale
dell’esistenza tutta la sua importanza.
Leggiamo
nel suo diario che la sua straordinaria avventura editoriale iniziò con la
partecipazione ad una Santa Messa, quasi a voler ricordare che per il cristiano
la vita interiore (la preghiera: non ci vergogniamo a dirlo!) è l’anima di ogni
apostolato.
Un santo
piuttosto “pragmatico” del secolo scorso amava ripetere che le crisi mondiali
sono crisi di santi...
Giuseppe Lalli
Giuseppe Lalli