Romanzi da leggere a puntate online. 26^ puntata, “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij

a cura di Andrea Giostra - La 26^ puntata dei Romanzi da leggere online è dedicata al quarto capitolo de “Il sosia” di Fëdor Michajlovič Dostoevskij.
In copertina: René Magritte (Lessines 1898 -Bruxelles 1967), “Le relazioni pericolose”, 1926, olio su tela.

IL SOSIA | Poema pietroburghese

Capitolo 4°.

Il giorno, il festoso giorno del compleanno di Klara Olsùfevna, figlia unica del consigliere di stato Bernadeiev, un tempo benefattore del signor Goljadkin, giorno diventato celebre per uno splendido, grandioso pranzo di gala, un pranzo come da lungo tempo non si era più visto di simile tra le pareti degli appartamenti di funzionari presso il ponte Izmajlovskij e nei dintorni, pranzo più somigliante a un convito di Baldassarre che a un pranzo, che rievocava un qualcosa di babilonese quanto a splendore, lusso e decoro, con profusione di champagne Cliquot, di ostriche e di frutta provenienti dai negozi di Elessev e di Miljutin, con ogni specie di ben nutriti vitellini e con tanto di "tabella dei ranghi" (1) dei funzionari in vista; questo festoso giorno, celebrato con un così grandioso pranzo, si concluse con un brillantissimo ballo, un piccolo ballo di famiglia tra intimi, ballo brillantissimo tuttavia per il buon gusto, l'eleganza e il decoro. Certo, io sono perfettamente d'accordo nel dire che balli di questo genere se ne vedono, sì, ma molto di rado. Serate danzanti come quelle, più simili a feste di famiglia che a balli veri e propri, possono svolgersi solo in case come, per esempio, la casa del consigliere di stato Bernadeiev. Dirò di più: ho perfino dei seri dubbi che in casa dei consiglieri di stato si possano dare simili balli. Oh, se io fossi poeta! Poeta naturalmente dell'altezza di un Omero o di un Puskin, perché con un ingegno meno elevato è impossibile farsi avanti... Se fossi poeta, dicevo, non mancherei di descrivervi, o lettori, con scintillante cromatismo e con ampie pennellate, tutto il susseguirsi degli avvenimenti di questa solenne giornata. Ma no, nel mio poema prenderei le mosse dal pranzo e in particolare mi attarderei su quell'attimo, meraviglioso e nello stesso tempo solenne, in cui fu alzata la prima coppa per brindare alla salute della regina della festa. Vi descriverei per prima cosa quegli ospiti assorbiti in quel religioso silenzio e in quell'attesa più simili all'eloquenza di Demostene che al silenzio. Poi vi descriverei Andréj Filìppovic', nella sua qualità di più anziano tra gli ospiti, quindi con qualche diritto al primato, nell'aureola di quei capelli bianchi e di decorazioni che sembravano fatte appositamente per quei capelli, che si alzava in piedi e sollevava alta sulla testa la coppa augurale piena di vino spumeggiante - vino fatto venire apposta da un lontano paese per solennizzare simili momenti - vino che poteva paragonarsi più a nettare degli dèi che a vino degli uomini. Vi descriverei gli invitati e i felici genitori della regina della festa, che, seguendo il gesto di Andréj Filìppovic', alzavano anche loro le coppe in alto e rivolgevano verso di lui gli occhi pieni di attesa. Vi descriverei come questo Andréj Filìppovic', così spesso ricordato, dopo aver lasciato cadere una lacrima nella coppa, pronunciò parole di rallegramento e di augurio, fece un brindisi e bevve alla salute... Ma, lo riconosco, lo riconosco pienamente, non sarei in grado di descrivere tutta la solennità di quel momento in cui la regina della festa, Klara Olsùfevna, arrossendo come una rosa di primavera, col rossore della beatitudine e della pudicizia, a causa dell'alluvione dei sentimenti, cadde tra le braccia della tenera madre, né come la tenera madre si commosse fino alle lacrime, né come in quell'occasione proruppe in singhiozzi il padre, l'eminente vegliardo e consigliere di stato Olsufij Ivànovic', che, privato dell'uso delle gambe durante i lunghi anni di servizio, era stato ricompensato dal destino per tanto zelo con un piccolo capitale, una casetta, alcune terre e una bellezza di figlia: prese a singhiozzare come un bambino, proclamando tra le lacrime che sua eccellenza era un grande benefattore. Io non potrei, no, veramente non potrei, descrivervi nemmeno l'estasi di tutti i cuori che seguì a quel minuto, estasi che fu lampante anche nel comportamento di un giovane registratore di collegio (che in quel momento faceva pensare più a un consigliere di stato che a un registratore di collegio), che nell'ascoltare Andréj Filìppovic' non riuscì a trattenere le lacrime. E a sua volta Andréj Filìppovic' in quel momento non somigliava affatto a un consigliere collegiale e a un caposezione di un dipartimento, no davvero! Poteva essere paragonato a ben altra cosa... non saprei a che cosa, di preciso, ma non certo a un consigliere di collegio. Era molto più in alto! Infine... ma perché non ho io il segreto di un'eloquenza elevata, potente, di uno stile eccelso, per descrivere tutti questi sublimi, meravigliosi istanti della vita umana, che sembrerebbero creati proprio per dimostrare come a volte la virtù trionfi sulle basse intenzioni, sullo scetticismo, sul vizio e sull'invidia! Io non dirò niente, ma col mio silenzio, che sarà migliore di qualsiasi discorso, attirerò la vostra attenzione su questo felice giovane che entra nella sua ventiseiesima primavera, su Vladimir Semjònovic', nipote di Andréj Filìppovic', che, a sua volta, si è alzato dal posto, che, a sua volta, ha pronunciato un brindisi e sul quale si sono puntati gli occhi pieni di lacrime dei genitori della regina della festa, gli occhi fieri di Andréj Filìppovic', gli occhi gonfi di lacrime della stessa regina della festa, gli occhi entusiastici degli ospiti e perfino gli occhi irreprensibilmente invidiosi di alcuni giovani colleghi del succitato brillantissimo giovanotto. Io non dirò nulla, anche se non posso fare a meno di osservare che tutto in questo giovane - che, parlando naturalmente completamente a suo vantaggio, è più somigliante a un vecchio che a un giovane - tutto, dico, a cominciare dal suo fiorente aspetto per arrivare fino al grado di assessore che gli competeva, tutto in quell'attimo solenne sembrava volesse dire: ecco a quale alto grado può arrivare un uomo di buoni costumi! Non starò a descrivere come, infine, Antòn Antònovic' Setoc'kin, capufficio di un dipartimento, collega di Andréj Filìppovic' e un tempo di Olsufij Ivànovic', nonché vecchio amico di famiglia e padrino di battesimo di Klara Olsùfevna, un vecchietto bianco come la neve, alzando a sua volta il bicchiere, cantò con una voce da gallo e pronunciò allegri versi; come costui, con una così autorevole dimenticanza delle convenienze, fece ridere fino alle lacrime tutta la compagnia e come la stessa Klara Olsùfevna per tanta allegria e amabilità lo baciò per ordine dei genitori. Dirò soltanto che alla fine gli ospiti, che dopo un pranzo del genere dovevano naturalmente sentirsi parenti e fratelli fra di loro, si alzarono dalla tavola; che i vecchietti e le persone posate, dopo un piccolo tempo passato in amichevoli conversazioni e perfino in alcune, ben inteso molto discrete e amabili, confidenze, si diressero cerimoniosamente in un'altra stanza e, senza perdere nemmeno uno di quegli istanti preziosi, sedettero divisi in gruppi, con un senso di personale dignità, a un tavolo ricoperto di panno verde; dirò che le dame, sistematesi in salotto e diventate all'improvviso amabilissime, si misero a chiacchierare di mille cose; dirò come, infine, lo stimatissimo padrone di casa, che aveva perso l'uso delle gambe durante un servizio fedele e giusto e che era stato compensato dal destino con quanto già detto prima, cominciò a passeggiare, sorretto dalle stampelle, tra gli invitati, appoggiato a Vladimir Semjanovic' e a Klara Olsùfevna e come, diventato pure lui improvvisamente amabilissimo, decise di improvvisare, nonostante la spesa, un piccolo e modesto ballo; come per questo scopo fu dato incarico di andare alla ricerca di musicanti a un giovane molto sveglio (quello stesso che durante il pranzo abbiamo detto che somigliava di più a un consigliere di stato che a un giovane); dirò come poi arrivarono i musicanti in numero di ben undici e come, infine, allo scoccare delle otto e mezzo precise, si alzarono le note invitanti della quadriglia francese e di altre svariate danze... 
Mi sembra persino superfluo dire che la mia penna è troppo debole, senza nerbo e spuntata per descrivere come si deve il ballo, così improvvisato dalla straordinaria amabilità del venerando padrone di casa. E come, mi domando, come posso io, modesto narratore delle avventure del signor Goljadkin, avventure nel loro genere, del resto, molto curiose, come posso io, dunque, rendere efficacemente quell'insolito e decoroso miscuglio di bellezze, di splendori, di corretta allegria, di amabile serietà e di seria amabilità, di brio, di gioia, e i giochi e le risate di tutte quelle mogli di funzionari, più somiglianti a fate che a signore - parlando, si intende, a tutto vantaggio di queste ultime - con le spalle e i faccini di un rosa liliale, con i vitini da vespa, coi piedini agili, vispi, omeopatici, per dirla in stile elevato? Come vi descriverò, infine, quei brillanti funzionari cavalieri, giovani allegri posati e seri, festosi e correttamente imbronciati, che tra un ballo e l'altro fumavano la pipa in una piccola saletta verde un po' isolata, oppure non fumavano affatto; cavalieri che possedevano dal primo all'ultimo un grado e un nome di rilievo, cavalieri profondamente compresi dal senso dell'eleganza e della dignità personale; cavalieri che, per la maggior parte, potevano conversare in francese con le signore, e, se parlavavano russo, erano in grado di usare espressioni di altissimo livello, con complimenti e frasi di qualità; cavalieri che, al massimo e forse soltanto nella saletta da fumo, si permettevano alcuni amabili deroghe a un linguaggio più di classe, con alcune frasi di amichevole e cortese familiarità, del genere, per esempio, di queste: "Ehi, Piotka, birbante che non sei altro, te la sei combinata, eh, una bella polca!" oppure: "Ehi, Vasja, specie di birbante, ti sei arrangiato come volevi, eh, con la tua damina?" Ma per tutte queste cose, lettori miei, come ho prima già avuto l'onore di spiegarvi, la mia penna non è all'altezza, e perciò io sto zitto. E è meglio che facciamo ritorno a Goljadkin, l'unico, vero eroe del nostro veritiero racconto. 
Il fatto è che lui si trova in una condizione, per non dire altro, assai strana. Lui, signori, è anche lui qui, cioè non qui al ballo, ma quasi; lui, signori, è qui e là; anche se se ne sta per conto suo, tuttavia in questo momento si trova su una strada non proprio giusta. Ora è, in verità, dritto - è persino strano dirlo - è ora dritto nell'ingresso della scala di servizio dell'appartamento di Olsùfij Ivànovic'. Ma che lui sia là dritto, non ha importanza; lui, così, ci sta bene, lui, signori miei, è là in un angolino, appiattito in un cantuccio che, se non è proprio caldo, è in compenso alquanto buio, seminascosto da un enorme armadio e da un vecchio paravento, in mezzo a ogni specie di ciarpame e di roba vecchia, stando per ora nascosto e, per il momento, accontentandosi di osservare l'andamento delle cose in qualità di spettatore estraneo. Egli, signori miei, per ora osserva soltanto: potrebbe, signori, anche entrare... ma perché poi, entrare? Basterebbe fare un passo e sarebbe dentro, e ci sarebbe con l'astuzia. Proprio poco fa, trovandosi ormai da tre ore al freddo tra un armadio e un paravento, in mezzo a ciarpame e roba vecchia di ogni genere, citava, come sua giustificazione, una frase del ministro francese di buonanima, Villèle, che diceva che "ogni cosa verrà a suo tempo se si ha l'intelligenza di aspettare". Questa frase Goljadkin l'aveva letta chissà quando in un libro che non aveva nessun legame con la faccenda di adesso, ma che ora, molto a proposito, gli era tornata alla mente... La frase, prima di tutto si adattava molto bene alla sua condizione attuale, e poi, che cosa mai non nascerà nella testa di un uomo che sta aspettando in un ingresso, al buio e al freddo, da quasi tre ore, la felice risoluzione dei suoi affari? Dopo aver citato molto a proposito, come già dissi, la frase dell'ex ministro francese Villèle, Goljadkin, non si sa perché, si ricordò anche dell'ex visìr turco Marzimiris, e così anche della bellissima margravia Luisa, dei quali aveva pure letto la storia chissà quando in un libro. Più tardi gli venne in mente che i gesuiti avevano stabilito come propria regola di tenere in considerazione tutti i mezzi adatti a raggiungere lo scopo. Dopo essersi un po' rassicurato con questo po' po' di caposaldo storico, Goljadkin si chiese chi fossero mai i gesuiti. I gesuiti erano, dal primo all'ultimo, dei fieri imbecilli, ai quali lui avrebbe dato parecchi punti, purché per un minuto soltanto fosse rimasta deserta la dispensa (quella stanza la cui porta dava direttamente sull'ingresso, nella scala di servizio, dove Goljadkin si trovava proprio in quel momento), cosicché lui, in barba a tutti i gesuiti, si sarebbe mosso e dalla dispensa sarebbe entrato prima nella sala da tè, poi nella saletta dove ora stavano giocando a carte e da lì dritto dritto nella sala dove si stava ballando la polca. E sarebbe passato, passato certamente, passato a qualsiasi costo, si sarebbe insinuato furtivamente e nessuno se ne sarebbe accorto; e una volta là sapeva lui ciò che doveva fare. Ecco, signori miei, in che situazione troviamo ora l'eroe della nostra storia assolutamente vera, benché ci riesca difficile spiegare che cosa in realtà succedesse in lui in quel momento. Il fatto è che era riuscito ad arrivare fino all'ingresso e fino alla scala, con quello scopo, come si andava ripetendo: perché poi non avrebbe potuto arrivarci, mentre tutti ci potevano arrivare? Ma non osava inoltrarsi di più, non osava farlo allo scoperto... non perché ci fosse qualcosa che non osasse fare, ma così, perché non lo voleva fare, perché preferiva agire di nascosto. Eccolo ora, o signori, in attesa dell'occasione buona, attesa che dura ormai da due ore e mezzo. Perché poi non rimanere in quell'attesa, se lo stesso Villèle stava in attesa dell'occasione! "Ma cosa c'entra qui Villèle?" pensava Goljadkin. "E chi è questo Villèle? Ma ecco, come potrei ora... prendere e infilarmi di nascosto? Ehi tu, comparsa che non sei altro!" disse Goljadkin, dandosi con la mano gelata un pizzicotto alla guancia gelata, "sei una bella razza di imbecille, Goljadkin che sei... visto che questo è il tuo cognome..."(2). 
Però questa tenerezza rivolta alla propria persona era in quel momento solo una cosa di passaggio, senza nessuno scopo specifico. 
Ecco che stava già per intrufolarsi dentro e avanzare; il momento era arrivato; la dispensa era rimasta completamente vuota, non c'era anima viva; Goljadkin vedeva tutto dal finestrino; in due passi raggiunse la porta e già stava per aprirla. "Entrare o no? 
Be’... entrare o no?... Ci andrò... perché poi non ci dovrei andare? Per l'uomo audace dappertutto esistono strade!" Così rassicuratosi, il nostro eroe, di colpo e in maniera assolutamente inaspettata, sgusciò dietro al paravento. "No," pensava "e se qualcuno entrasse? Sicuro, è proprio entrato qualcuno; perché sono stato qui a sbadigliare mentre non c'era nessuno? Avrei dovuto prendere e infilarmi dentro!... No, come ci si può infilare dentro, quando il carattere di un uomo è come il mio? Che abietta dannazione! Mi sono spaventato, come una gallina. Spaventarsi è roba nostra, ecco com'è! Essere svergognato è sempre una roba nostra; su questo non chiedeteci niente. E allora rimani piantato qui come un tronco, e basta! A quest'ora, a casa, berrei la mia tazzina di tè... Come sarebbe piacevole berne una tazzina. Se arrivo tardi è capace che Petruska si metta a brontolare. E se andassi a casa? Che i diavoli si portino via tutti questi pasticci! Ora me ne vado, e basta!" Sistemata così la sua situazione, Goljadkin avanzò rapidamente, come se qualcuno avesse fatto scattare in lui una molla; con due passi raggiunse la dispensa, si sfilò il cappotto, si tolse il cappello, li ammucchiò in fretta in un angolo, si ravviò i capelli, si diede una lisciatina; poi... poi si diresse verso la sala da tè, scivolò in un'altra stanza e sgusciò quasi non visto in mezzo, tra i giocatori; poi... poi... a questo punto Goljadkin dimenticò tutto quello che gli succedeva intorno e arrivò direttamente, come la neve sulla testa, nella sala da ballo. 
Nemmeno a farlo apposta, in quel momento non si ballava. Le dame passeggiavano per la sala in gruppi pittoreschi. Gli uomini si erano divisi in capannelli o andavano in giro per la sala a impegnare le dame. Ma Goljadkin non vedeva niente di tutto questo. 
Davanti agli occhi non aveva che Klara Olsùfevna, vicino a lei Andréj Filìppovic', e Vladimir Semjanovic', e pure due o tre ufficiali e due o tre giovanotti, tutti molto interessanti, che permettevano o avevano già realizzato, come si poteva capire al primo sguardo, parecchie speranze... Vedeva ancora qua e là qualcun altro. O meglio, no: non vedeva più nessuno, non guardava più nessuno... e, spinto da quella stessa molla che lo aveva precipitato, senza invito, in mezzo a una festa da ballo altrui, si fece avanti, poi più avanti ancora, e sempre più avanti, urtò, passando, non so quale consigliere e gli pestò un piede; e pestò pure il vestito di una rispettabile vecchietta e gli fece un piccolo strappo, urtò un cameriere con un vassoio, si scontrò ancora con qualcun altro, e, senza accorgersi di tutto questo, o, per meglio dire, accorgendosene, ma contemporaneamente senza guardare nessuno e avanzando sempre più, si trovò all'improvviso davanti a Klara Olsùfevna in persona. Di sicuro in quel momento sarebbe sprofondato sottoterra senza batter ciglio e col massimo piacere; ma quello che era fatto era fatto... non c'era verso di tornare indietro. Che c'era da fare, ormai? "Se non ti riesce insisti e, se ti riesce, tieni duro". Goljadkin, già lo si capisce, non era un intrigante, e lucidare i pavimenti con gli stivali non era cosa da lui... Ma ormai le cose erano andate così.
E poi anche i gesuiti, chissà come, ci si erano ficcati in mezzo. 
Ma non a loro, del resto, poteva pensare Goljadkin! Ogni cosa che muoveva, faceva rumore, parlava, rideva, ogni cosa, insomma, all'improvviso, come per incanto, si era calmata e a poco a poco aveva fatto ressa attorno a Goljadkin. Il quale, del resto, sembrava non sentire e non vedere niente... e non era in grado di guardare... non poteva guardare per nessun motivo: aveva rivolto gli occhi a terra e se ne stava così, dopo essersi però dato, di sfuggita, la parola d'onore che a qualsiasi costo si sarebbe sparato quella notte stessa. Assunto quell'impegno, Goljadkin si disse mentalmente: "Vada come vuole!" e con la sua più grande meraviglia cominciò, nel modo più impensato, a parlare. 
Cominciò, Goljadkin, con felicitazioni e irreprensibili auguri. Le felicitazioni filarono a meraviglia, ma negli auguri il nostro eroe inciampò. Sentiva che, se avesse inciampato, tutto sarebbe andato a catafascio. E così infatti successe: inciampò e balbettò... balbettò e diventò rosso: diventò rosso e si smarrì; si smarrì e alzò gli occhi; alzò gli occhi e li girò tutt'intorno; li girò tutt'intorno e si sentì morire... Tutti erano in piedi, fermi, tutti stavano zitti, tutti aspettavano; un po' più in là si sentì un mormorio, un po' più in qua un ridacchiare... Goljadkin lanciò uno sguardo umile e smarrito ad Andréj Filìppovic'. Andréj Filìppovic' rispose a Goljadkin con una occhiataccia tale che, se il nostro eroe non fosse già stato completamente a terra, ci sarebbe andato infallibilmente una seconda volta, se appena appena ciò fosse stato possibile. Il silenzio continuava. 
"Questo riguarda più che altro le mie faccende domestiche e la mia vita privata, Andréj Filìppovic'" disse con voce appena percettibile Goljadkin, più morto che vivo; "questo non è un avvenimento ufficiale, Andréj Filìppovic'..." "Vergognatevi, signore, vergognatevi!" disse Andréj Filìppovic', quasi bisbigliando e con una faccia indescrivibilmente indignata; disse e, presa per mano Klara Olsùfevna, girò le spalle a Goljadkin. 
"Non ho niente da vergognarmi, Andréj Filìppovic'" rispose Goljadkin, anche lui quasi bisbigliando, volgendo intorno uno sguardo desolato, smarrito, e facendo ogni sforzo, in una simile circostanza, per ritrovare in quella folla imbarazzata il suo punto di appoggio e la sua posizione sociale. 
"Suvvia, signori, non è niente, non è niente! Che volete che sia? 
Suvvia, può capitare a chiunque..." mormorava Goljadkin, spostandosi a poco a poco dal posto in cui si trovava e cercando di sciogliersi dalla folla che gli stava intorno. Gli fecero strada. Il nostro eroe passò alla meglio tra due file di osservatori curiosi e sconcertati. La fatalità lo trascinava. E che fosse proprio la fatalità a trascinarlo lo sentiva Goljadkin stesso. Naturalmente avrebbe pagato qualsiasi somma per avere la possibilità di trovarsi ora, senza trasgredire le convenienze, nel suo angolino di poco prima, là nell'ingresso, vicino alla scala di servizio; ma poiché questo era assolutamente impossibile, cominciò a cercare di defilarsi da qualche parte, in un qualsiasi angoletto, e restarsene poi lì, modesto e corretto, per conto suo, senza disturbare nessuno, senza attirare su di sé l'attenzione, ma nello stesso tempo cercando di accattivarsi la benevolenza degli ospiti e del padrone di casa. D'altronde Goljadkin aveva l'impressione che quasi gli venisse tolto il terreno da sotto i piedi, si sentiva vacillare e cadere. Infine raggiunse un angoletto e vi si sistemò come un osservatore estraneo, indifferente, dopo aver appoggiato entrambe le mani sulla spalliera di due sedie e averle afferrate in un modo tale da averle completamente in suo possesso, mentre cercava in tutti i modi di guardare con fisso gli ospiti di Olsufij Ivànovic' che avevano fatto cerchio intorno a lui. Più vicino di tutti gli stava un ufficiale, un giovane alto e bello al cui confronto Goljadkin si sentiva niente più di un insetto. 
"Queste due sedie, tenente, sono già destinate: una è per Klara Olsùfevna e l'altra per la principessina Cevcechànova che partecipa anche lei al ballo; io, tenente, le ho in custodia" disse, ansimando, Goljadkin, mentre rivolgeva uno sguardo supplicante al tenente. Il tenente, senza una parola e con un sorriso simile a una pugnalata, gli girò le spalle. Dopo questo colpo mancato, il nostro eroe provò a cercare fortuna da un'altra parte e si rivolse direttamente a un maestoso consigliere che portava al collo una importante decorazione. Ma il consigliere lo schiacciò con un'occhiata così agghiacciante che Goljadkin ebbe la netta impressione che all'improvviso gli fosse piovuta addosso una doccia fredda. Goljadkin si calmò. Decise che la miglior cosa era quella di tacere, di non attaccare discorso, di far vedere che lui se ne stava per conto suo, che era lì anche lui come tutti gli altri e che la sua posizione era, a quanto gli sembrava, assolutamente corretta. Con questo obiettivo fissò lo sguardo sui risvolti della sua uniforme, poi alzò gli occhi e li posò su un signore dall'aspetto rispettabilissimo. "Questo signore porta la parrucca" pensò Goljadkin "e se gliela si togliesse, questa parrucca, la sua testa resterebbe nuda, proprio come il palmo della mia mano". Fatta questa importante scoperta, Goljadkin si ricordò degli emiri arabi che, se si toglieva loro dalla testa il turbante verde che sta a indicare la loro parentela col profeta Maometto, sarebbero rimasti anch'essi con la testa nuda, senza un capello. Poi, certamente per una particolare associazione di idee riguardanti i turchi che si era formata nella sua testa, Goljadkin arrivò fino alle pantofole turche e al riguardo ricordò che Andréj Filìppovic' calzava certi stivali che facevano pensare a pantofole piuttosto che a stivali. Era chiaro che Goljadkin si era in parte abituato alla situazione in cui si trovava. "Ecco, se questo lampadario si staccasse ora dal suo posto e cadesse in mezzo agli ospiti, mi lancerei subito a salvare Klara Olsùfevna. E, dopo averla salvata, le direi: 'Non spaventatevi, signorina, non è niente, ma il vostro salvatore sono io'... Poi...". A questo punto Goljadkin girò gli occhi cercando con lo sguardo Klara Olsùfevna e scorse Gherasimyc', il vecchio cameriere di Olsufij Ivànovic'. 
Gherasimyc', con un'aria preoccupatissima e ufficialmente maestosa, si faceva strada puntando direttamente su di lui. 
Goljadkin ebbe un sussulto e fece una smorfia a causa di una vaga e nello stesso tempo spiacevolissima sensazione. Meccanicamente gettò uno sguardo intorno: pensò subito di scivolare via in qualche modo, alla chetichella, furtivamente, di prendere e battersela, cioè di fare come se nessuno avesse gli occhi fissi su di lui e come se la cosa non lo riguardasse affatto. Ma, prima che il nostro eroe avesse fatto in tempo a prendere una decisione nell'uno o nell'altro senso, già si trovò in piedi, davanti, Gherasimyc'. 
"Vedete, Gherasimyc'," disse il nostro eroe, rivolgendosi con un sorriso a Gherasimyc' "suvvia, date ordine, ecco, vedete quella candela su quel candelabro là... vedete, Gherasimyc', sta per cadere; perciò voi, vedete, date ordine che la raddrizzino: 
certamente ora cadrà, Gherasimyc'..." "La candela? No, signore, la candela sta perfettamente dritta; ma ecco, c'è là qualcuno che chiede di voi." "Chi è che chiede di me, Gherasimyc'?" "Veramente chi precisamente sia, non lo so. Un uomo mandato da qualcuno. Si trova qui, ha detto, Jakòv Petrovic'? Allora chiamatelo, ha detto, per un importante e urgentissimo affare: 
così ha detto." "No, Gherasimyc', vi ingannate: in questo, Gherasimyc', vi ingannate..." "Ne dubito..." "No, Gherasimyc', non c'è proprio da dubitare: qui, Gherasimyc', non c'è davvero da dubitare. Nessuno chiede di me, Gherasimyc', non c'è nessuno che possa chiedere di me e io qui sono a casa mia, voglio dire, Gherasimyc', che sono al mio posto." Goljadkin tirò il fiato e girò lo sguardo intorno. Era proprio così! Tutti quelli che erano in sala avevano teso verso di lui occhi e orecchie in una specie di solenne aspettativa. Gli uomini si affollavano lì vicino e tendevano l'orecchio. Più in là le signore bisbigliavano allarmate tra loro. Il padrone di casa in persona comparve a brevissima distanza da Goljadkin e, benché il suo viso non mostrasse che anche lui, per parte sua, partecipava direttamente e immediatamente alle vicende del signor Goljadkin, perché là ogni cosa era fatta con garbo, tuttavia tutto questo complesso di circostanze fece chiaramente capire all'eroe del nostro racconto che era arrivato per lui il momento decisivo. 
Goljadkin vedeva chiaramente che era il momento di tentare un colpo audace, il momento della vergogna per i suoi nemici. 
Goljadkin era in preda a una grande agitazione. Pervaso da una specie di ispirazione, con voce tremante e solenne, rivolto a Gherasimyc' che era in attesa, riprese a dire: 
"No, amico mio, non c'è nessuno che mi chiami. Ti inganni. Dirò di più: ti ingannavi anche questa mattina quando mi assicuravi... 
quando osavi assicurarmi, insisto (Goljadkin alza la voce), osavi assicurarmi che Olsufij Ivànovic', mio benefattore da anni immemorabili, che mi ha fatto in quasi da padre, mi chiudeva la porta in faccia proprio nel momento di una gioia familiare e solenne per il suo cuore di padre. (Goljadkin si guardò intorno soddisfatto di se stesso, ma con profondo sentimento. Tra le sue ciglia erano apparse le lacrime.) Ripeto, amico mio" concluse il nostro eroe, "che ti sei ingannato, seriamente e imperdonabilmente ingannato..." Il momento era carico di solennità. Goljadkin sentiva che l'effetto non poteva mancare. In piedi, con gli occhi modestamente abbassati, stava aspettando l'abbraccio di Olsufij Ivànovic'. Tra gli ospiti si notava una certa inquietudine e perplessità: perfino l'irremovibile e terribile Gherasimyc', alle parole "ne dubito" aveva preso a balbettare, quando di colpo, implacabilmente, I'orchestra di punto in bianco intonò una polca. Tutto precipitò, tutto fu travolto dal vento. Goljadkin ebbe un sussulto, Gherasimyc' arretrò di un passo. Tutto quello che c'era nella sala si agitò come il mare e Vladimir Semjònovic' già faceva coppia con Klara Olsùfevna e il bel tenente con la principessina Cevcechànova. I presenti, curiosi e entusiasti, si affollavano per guardare i ballerini della polca, una danza interessante, nuova, ultima moda, che faceva girare la testa a tutti. Goljadkin, per il momento, era dimenticato. Ma, all'improvviso, tutto cominciò a agitarsi, a muoversi, ad affannarsi; la musica tacque... era capitato uno strano incidente. Stanchissima per il ballo, Klara Olsùfevna, che a malapena riusciva a respirare per la fatica, con le guance in fiamme e con il petto in sussulto, si era abbandonata senza forze su una poltrona. I cuori di tutti si concentrarono sull'affascinante incantevole fanciulla, tutti a gara si affollarono a complimentarla e a ringraziarla del piacere loro offerto... e all'improvviso, davanti a lei, ecco Goljadkin. 
Goljadkin era pallido, sconvolto; sembrava anche lui in uno stato di grande prostrazione e si muoveva a stento. Sorrideva e, chissà perché, tendeva una mano come a supplicare. Klara Olsùfevna, sbigottita, non fece in tempo a ritirare la mano e meccanicamente, all'invito di Goljadkin, si alzò in piedi. Goljadkin si sentì barcollare in avanti, prima una volta, poi un'altra, poi sollevò un piede, fece una strisciata, quindi sembrò che quel piede lo battesse a terra, infine inciampò... voleva, lui pure, ballare con Klara Olsùfevna. Klara Olsùfevna lanciò un grido: tutti si slanciarono per liberare la sua mano da quella di Goljadkin e, di colpo, il nostro eroe fu scaraventato dalla folla degli invitati a quasi dieci passi di distanza. Anche intorno a lui si strinse un cerchio di gente. Si sentirono gli strilli e le grida di un vecchio che per poco Goljadkin non aveva travolto nella sua ritirata. Nacque una confusione tremenda: s'incrociavano le domande, tutti gridavano, discutevano. L'orchestra tacque. Il nostro eroe girava in mezzo al suo cerchio e meccanicamente, un po' sorridente, borbottava tra sé e sé qualcosa come: "E perché no?" e come a dire che "a quanto gli sembrava, la polca era un ballo nuovo e interessantissimo, creato per il conforto delle dame... ma che, se la faccenda era andata così, lui, perché no, era pronto a convenirne". Ma il consenso di Goljadkin non sembrava richiesto da nessuno. Il nostro eroe sentì che, di colpo, una mano di chi sa chi si era posata sul suo braccio, che un'altra mano premeva leggermente la sua schiena, che con una certa speciale insistenza si cercava di sospingerlo verso una certa direzione. 
Infine si rese conto di andare dritto dritto verso la porta. 
Goljadkin avrebbe voluto dire qualcosa, fare qualcosa... Ma no... 
non voleva ormai più niente. Rispondeva solo ridacchiando meccanicamente. Infine sentì che gli stavano infilando il cappotto e che qualcuno gli aveva calcato il cappello fin sugli occhi; poi si trovò nell'ingresso, in mezzo al buio e al freddo, e poi sulla scala. Finì con l'inciampare e ebbe l'impressione di cadere in un baratro: gli venne da gridare, ma di colpo si ritrovò in cortile. 
L'aria fresca gli soffiò sul viso, per un momento si fermò; nello stesso istante arrivarono fino a lui le note dell'orchestra. Di colpo Goljadkin ricordò tutto: e sembrò che tutte le forze che gli erano crollate dentro gli fossero tornate. Fuggì dal posto in cui era rimasto immobile, come inchiodato, e a rotta di collo si precipitò fuori, chissà dove, all'aria aperta, verso la libertà, dove le gambe lo portavano... 

NOTE: 
(1) La tabella elencava quattordici gradi di funzionari e regolamentava anche i diritti di precedenza.  
(2) In russo questo cognome suona come "mentalmente sprovveduto", povero di spirito. 


Fëdor Michajlovič Dostoevskij
https://it.wikipedia.org/wiki/Fëdor_Dostoevskij 
https://it.wikipedia.org/wiki/Diario_di_uno_scrittore 

Andrea Giostra
https://andreagiostrafilm.blogspot.it  
https://business.facebook.com/AndreaGiostraFilm/ 

Fattitaliani

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