Viaggiare in auto
in Armenia può essere pericoloso! Lo
stato delle strade non è ottimale e tratti ben tenuti improvvisamente
s’interrompono con grossi buchi nell’asfalto che possono risultare fatali
all’auto.
Proprio mentre mi trasferivo a Tbilisi
(Georgia) una buca ci ha distrutto uno pneumatico con conseguente ritardo
sul viaggio. Per questo motivo distanze non particolarmente eccessive
richiedono una quantità di tempo non indifferente e, soprattutto, una costante
attenzione alla strada e agli strani percorsi che le altre auto fanno per
evitare le buche. A ciò va aggiunto un particolare di colore, economicamente
interessante: non è infrequente incontrare sulle strade grosse greggi di pecore
o mandrie di bovini che occupano la via; nulla di eclatante, ma per un
viaggiatore abituato alle strade europee l’incontro è simpaticamente ansiogeno.
Ma, a parte queste difficoltà, il paesaggio armeno è profondamente diverso da
quelli a cui siamo abituati in Italia e quindi è di grande interesse per la
varietà di panorami, l’impressionante velocità con cui le prospettive si aprono
e si chiudono, la profondità delle vallate e le improvvise barriere che si
frappongono tra il nostro occhio e l’orizzonte.
L’Armenia è una piccola nazione che copre
un’area pari a quella del Piemonte e della Liguria messe insieme e in questa
piccola area, priva di sbocchi al mare, l’elemento dominante è senz’altro l’Ararat (che si trova in
Turchia). E’ rinfrancante percorrere la verdissima pianura a sud di Jerevan
dominata da questo colossale vulcano spento e tutta coltivata a frutteti
(soprattutto pesche) e vigneti, i vini locali sono ottimi. Molto caratteristici
sono anche i tanti nidi di cicogna appollaiati sui pali e che si susseguono
quasi a perdita d’occhio. Questa pianura, stretta tra il confine turco e i
monti, va via via restringendosi proseguendo verso sud e la montagna diventa la
caratteristica principale di un paesaggio che dai circa mille metri
dell’altopiano dove si trova Jerevan s’innalza rapidamente, giungendo ai quasi
duemila metri del lago Sevan, per
raggiungere e superare i quattromila del monte Arragats
che, posto di fronte all’Ararat
quasi incornicia l’altopiano armeno. Ma ciò che colpisce in questa cavalcata
verso l’alto è il terreno.
Monti e colline
sono infatti di origine vulcanica e in molti tratti si vede uno strano
scintillio a terra: è l’ossidiana, una pietra vulcanica che, riflettendo come
un vetro i raggi del sole, brilla con forza. Impressionanti poi sono le profondissime,
strette vallate, veri e propri canyon che spesso interrompono improvvisamente
il paesaggio; non so se di origine tettonica o vulcanica questi strani e
affascinanti ambienti sembrano narrarci di sconvolgimenti e cataclismi
colossali avvenuti nella notte dei tempi. Così, spesso, appena dietro una curva
o una bella collina, si aprono abissi profondi in cui lo sguardo resta quasi
affascinatamente catturato come succede a Garni,
luogo famoso per la presenza di un tempio ellenistico e di terme di epoca
romana. Qui la strada che conduce al tempio si snoda senza difficoltà apparenti
tra le colline, si giunge al tempio poi, camminando a piedi e girandogli
intorno si scopre improvvisamente che siamo sulla sommità di un orrido
profondissimo di cui era impossibile immaginarne l’esistenza fino a quando non
si è aggirata la costruzione.
Lo stesso succede a
Saghmosawank dove dietro le
chiese del monastero si apre, inaspettato e perturbante un lungo e, di nuovo,
profondissimo canyon. L’orografia del territorio è quindi completamente diversa
da quelle delle nostre pianure alluvionali o dalle strette, lunghe vallate
alpine di origine glaciale o dalle ampie vallate appenniniche che un tempo
erano il fondo di un mare basso e caldo. Questa terra ci appare come modellata
da forze titaniche che col fuoco delle eruzioni e con le scosse di devastanti
terremoti hanno creato un paesaggio di una bellezza selvaggia. Circa cinque
millenni fa un antichissimo e affascinante poema narra del viaggio di un re di
Uruk in Mesopotamia verso il nord, verso l’Armenia. Gilgamesh, questo è il nome
dell’eroe, vuole impadronirsi del legno di quelle terre e a un certo punto sogna
quella che alcuni commentatori hanno interpretato come un’eruzione vulcanica:
queste terre già al sorgere della civiltà erano caratterizzate, per i loro
vicini, dalla violenza dello scontro tra placche geologiche!
Tra questi alti
monti il lago Sevan appare
all’improvviso circondato dalle vette e con un’imponenza sbalorditiva. Per dare
un’idea, questo lago è lungo 90 chilometri e largo 30 nel punto massimo, si
estende quindi su una superficie grande più di tre volte il lago di Garda ed è pescosissimo. La trota che
popola queste acque ha un’ottima carne e, cucinata impanata, è in grado di
soddisfare i palati più esigenti. Particolarmente suggestiva è la penisola che
si protende nel lago su cui è stato costruito il monastero di Sevanawank. Se si raggiunge il
punto più alto in una bella giornata il panorama appare di una ricchezza
sconfinata e comunica uno stato di tranquillo benessere da cui è difficile congedarsi.
Lo sguardo spazia dal blu profondo del lago al verde del collinoso altopiano,
dall’azzurro chiaro del cielo al bianco delle cime innevate e delle nuvole; vi
è qualcosa di insaziabile nell’osservare come il verde e il blu si contendano
gli spazi e come la neve in lontananza incornici l’orizzonte; i rumori giungono
attutiti e una sensazione di calma pervade l’intera penisola. Questo angolo
d’Armenia è di un fascino che merita una lunga sosta contemplativa.
Si è accennato
prima all’ottimo vino e alla superba trota di lago ma almeno un paio di altre
indicazioni gastronomiche vale la pena ricordare. La prima è la ricchissima
quantità di zuppe che è possibile assaggiare. Personalmente ho trovato ottima
la Spas, una zuppa di yogurt e orzo
dal sapore delicatamente squisito, ma ne esistono per tutti i gusti e con gli
ingredienti più disparati con carne (di tutti i tipi), patate, verdure e così
via. E poi la carne alla brace. La cottura della carne avviene all’interno di
forni circolari scavati nel pavimento (i Tonir), sul fondo
c’è la brace ardente e su di essa sono posizionati dei grossi spiedi alti almeno
un metro con la carne e le patate infilzate, questi spiedi posseggono a un capo
un gancio che si attacca a sbarre di ferro messe trasversalmente sull’apertura
del forno debitamente coperta durante la cottura. La carne acquista un gusto
ottimo ed è da mangiarsi avvolta nel Lawasch, un tipo di pane azzimo senza lievito, cotto in
appositi forni sul tipo di quello per la carne. Ma il Lawasch, peraltro comune a tutta
un’ampia area asiatica comprendente anche Turchia,
Iran e Azerbaijan, risulta adatto non solo con la carne ma anche con le
tantissime verdure, i peperoni piccanti, i pomodori che possono essere avvolti
al suo interno.
Queste brevi
annotazioni al mio viaggio in Armenia
si concludono qui. Ma non posso non ringraziare le persone che mi hanno accompagnato
e fatto conoscere un bellissimo paese. Roberto
Graziotto, il mio amico teologo con cui è sempre bello confrontarsi e la
cui profonda umanità è basata su un autentico spirito evangelico, le
professoresse armene Nune Minasyan, Rusanna Arakelyan e la tedesca Johanna Butting sempre disponibili e
cortesissime, l’amico Tobias Jacobs,
il cantante d’opera poliglotta Armen
Karapetyan (con cui era bello parlare in italiano), il professore Vahran Soghomonyan (figura di spicco
dell’intellighenzia armena) e l’amica ungherese, profonda conoscitrice
dell’Armenia, Ilkei Eniko.
Nicola F. Pomponio