Il concilio di Calcedonia, città fondata dai greci e ora quartiere di Istanbul (Kadikoy), era stato convocato per definire dottrinalmente le due nature (umana e divina) del Cristo contro l’eresia monofisita che, esaltandone la natura divina, giungeva a negarne l’umanità. Il Concilio stabilì la retta dottrina, fu un successo di Papa Leone (che si ricorda anche per la leggenda secondo cui avrebbe fermato da solo le orde unne di Attila ad Aquileia), ma, purtroppo, non riuscì a stabilire l’unità dei Cristiani. Vescovi egiziani, siriaci, etiopici non riconobbero le decisioni mentre l’Armenia, che era stata invasa dai Persiani, non mandò nessun vescovo e non aderì al dettato conciliare.
Da quella data in
poi la Chiesa armena andò prendendo le distanze dalle altre Chiese e quando Giustiniano, un secolo dopo, tentò un
controllo più aggressivo del regno la spaccatura si approfondì
irrimediabilmente, unendo motivazioni dottrinali e rivendicazioni
indipendentiste. La Chiesa armena è quindi autocefala; dottrinalmente non è
lontana, non si proclama e non è assolutamente monofisita, né dal cattolicesimo
né dall’ortodossia (in passato si è tentato più volte una riunione) e ha
sviluppato un apparato liturgico imponente e suggestivo. Penso sia importante
tenere a mente queste scarnissime informazioni quando si visitano i monasteri
armeni; sono tantissimi e hanno rappresentato per la storia di questo paese un
momento fondamentale per la conservazione, l’approfondimento, lo sviluppo della
cultura e dell’identità collettiva della popolazione.
Nei giorni che ho
soggiornato nel Caucaso ne ho
visitati molti e naturalmente non è il caso di descriverli a uno a uno, ma due
particolarità vanno subito tenute presenti: i monaci non appartengono, come in
occidente, a ordini con gerarchie separate ma rispondono, come quello che noi
chiamiamo clero secolare, alle gerarchie territoriali e al Katholikòs; inoltre
se i monasteri possono dare l’impressione di essere architettonicamente simili
tra di loro, in realtà a fronte di queste similitudini si articolano profonde
differenze. Le due cose sono collegate perché, al contrario che in occidente
dove esistono caratteristiche artistiche legate ai singoli ordini (arte
benedettina, cistercense, francescana ecc.), il monastero armeno appare
espressione di una omogenea rappresentazione del mondo e della fede. Ciò che
subito colpisce sono i colori. Tutti i monasteri sono realizzati con pietre
vulcaniche nere e rosso scuro; il che dà un’impressione di austera bellezza;
pochissime chiese hanno un’illuminazione artificiale e le candele, la
semioscurità, la luce che penetra da un oculo posto sulle sommità delle cupola
e dal portone d’ingresso donano a queste costruzioni una bellezza ascetica.
Nessuna statua, rarissimi dipinti con notevole predilezione per la figura di
Maria; sembra così esprimersi una religiosità forte, solida e con una grande
sensibilità per un “sacro” profondamente altro, eppur vicinissimo.
A queste
suggestioni vanno aggiunte alcune caratteristiche architettoniche. La pianta è
sempre a croce greca orientata sull’asse est-ovest con l’altare rivolto a est,
è costante un ambiente centrale delimitato da quattro colonne-pilastri su cui
si elevano archi talvolta a tutto sesto, talaltra leggermente a sesto acuto. Mi
sono chiesto la ragione per cui sono sempre e solo quattro i pilastri e penso
che la soluzione mi sia venuta a Norawank nella
Chiesa di Surb Astvatsatsin dove in un ambiente quasi sotterraneo (questa
chiesa è stranissima, con una ripida scalinata esterna che percorre in
diagonale la facciata ai due lati dell’ingresso conducendo al piano superiore,
dov’è l’altare) gli archi non sostengono la cupola ma il tetto dell’ambiente
sovrastante; qui in corrispondenza di ogni campata sono scolpiti i quattro
simboli degli evangelisti, quindi probabilmente il motivo per cui tutte le
chiese posseggono questa struttura è da rintracciarsi in un fondamento
evangelico (cosa che il mio amico Roberto, da buon teologo, aveva subito
compreso senza vedere i fregi).
Su questi archi
insiste sempre una cupola divisa in spicchi dal numero variabile e all’apice si
trova l’oculo, all’esterno la cupola non è mai visibile rotonda ma sempre
coperta da elementi che la trasformano in un cono o piramide. Mi soffermo un
attimo sull’oculo. E’ incredibile come il nostro occhio abituato, o accecato,
dall’illuminazione artificiale sia comunque immediatamente suggestionato
dall’illuminazione naturale. Le chiese sono abbastanza buie, anche come detto per
le pietre usate, la luce che arriva dall’alto ha quindi un’importanza enorme e
ho voluto visitare San Giovanni Illuminatore,
bella chiesa del X secolo, nel monastero di Hagadzin
in due momenti diversi. In un caso, col cielo coperto, entrava un chiarore
diffuso che si riverberava sulle pareti senza che la luce s’imponesse con forza,
anzi una sorta di aerea gentilezza sembrava caratterizzare tutto l’edificio, ma
quando il sole brillava nel cielo senza nuvole la luce entrava con un fascio
netto, deciso, tagliente e illuminava con irruenza la parte della chiesa che
colpiva.
Se nel primo caso
sembrava quasi di assistere a un alleggerimento dell’edificio, nel secondo
c’era qualcosa di caravaggesco, metafisico, qualcosa che non poteva non evocare
l’inizio del Vangelo di Giovanni (“In Lui era la vita e la vita era la luce
degli uomini; la luce splende nelle tenebre” 1,4-5). L’altare non è mai posto
sotto la cupola ma al fondo del braccio contrapposto all’entrata e, particolare
di notevole interesse liturgico, non è mai a livello del terreno ma sempre
sopraelevato, quando addirittura posizionato in un altro ambiente a cui si
accede dietro una parete divisoria. In tal modo risulta netta la separazione
tra celebrante posto in alto e che dà le spalle ai fedeli e i partecipanti al
rito in basso e sempre in piedi, o in ginocchio, ma mai seduti non essendovi
banchi. Ho avuto modo di assistere al rito solenne a Echmiatsin, la residenza del
Katholikòs, e colpisce il continuo canto che caratterizza il rito, ma anche in
questo caso il rito ha modellato l’architettura perché queste chiese posseggono
un’acustica straordinaria.
Al Monastero di Geghard, ponendosi al centro
dell’ambiente, in corrispondenza all’oculo, il canto si spande per tutta la
chiesa con una potenza e anche dolcezza che ha del commovente: non è solo
forza, vi è in questo caso come un delicato e armonico crescere su se stesso
della voce, un potenziarsi che ha dell’ineffabile, un’asciutta capacità di
evocazione dell’Altro. Spesso le facciate delle chiese ricordano quel ruolo di
cerniera tra oriente e occidente al quale si è già accennato. A Saghmosawank, realizzato nel
XIII sec., il portale contiene in sé motivi orientali (stelle che richiamano
quelle di David, un arco carenato) all’interno di una facciata in cui si
presentano elementi, come l’arco a tutto sesto, che sembrano rimandare alla
contemporanea arte europea. Mentre nella chiesa di Surb Karapet a Norawank l’ingresso è
sormontato da una Madonna in trono con bambino che ricorda direttamente le
sculture romaniche ma con in più un ricchissimo motivo floreale che avvolge le
figure e che sembra evocare l’arte persiana. Si potrebbero aggiungere
moltissimi altri elementi ma mi preme sottolinearne uno che non ha
giustificazioni estetiche.
Spesso nelle pareti
posteriori delle chiese vi sono come delle nicchie che percorrono in tutta la
sua altezza l’edificio: sono elementi antisismici che alleggeriscono la
struttura dandole elasticità; rendono bene l’idea dell’ingegno armeno e del
problema dei terremoti che hanno devastato a più riprese queste regioni. Un
caso a sé per l’importanza e la storia del sito è quello di Khor Virap, vero e proprio
monastero-fortezza a ridosso della frontiera turca e di fronte all’Ararat. Su
queste colline vulcaniche il monastero è solo l’ultimo atto di una storia quasi
trimillenaria. Se la chiesa Astvatsatsin
risale al XVII sec. il sito era già utilizzato in epoca urartea (dal IX-VIII
sec. a.C.), divenne poi la capitale del regno armeno col nome di Artaxata. Qui si combatté la battaglia
decisiva tra Lucullo e Tigrane II nel 68 a.C. (partecipò alla campagna, secondo
Appiano e Plutarco, un comandante di cavalleria di nome Pomponio, forse quindi qualcuno
della mia famiglia era già stato in Armenia!), fu presa nel I sec. d.C. dal
generale romano Corbulone e rimase
capitale dal 189 a.C. al 428 d. C.: è difficile pensare un luogo dove la storia
sia più presente.
Alcune riflessioni,
in chiusura, sui Khachkar, le
croci di pietra. Sono un prodotto tipico dell’arte armena e se ne vedono
tantissimi, di tutte le dimensioni e tutti impressionanti, alcuni con il bordo
superiore ripiegato su se stesso come protezione contro le intemperie (sono i
più recenti); in essi si rende particolarmente percepibile quell’incontro con
motivi orientali a cui spesso si è fatto cenno. Nel blocco di pietra
rettangolare è incisa una croce che, nelle quattro estremità, tende a
biforcarsi dando vita a motivi floreali o ispirati all’uva. Sotto la croce possono
esservi altri motivi come rosoni o altre foglie che si dipartono dal basso. E’
un certosino lavoro di intaglio con decorazioni labirintiche, una ricerca
dell’ornamento che vuole mostrare come dalla croce fiorisca la vita, come
l’eternità (simboleggiata dal rosone o dal cerchio posto sotto la croce) si manifesti
nella Croce stessa. I tappeti persiani con motivi floreali hanno un aspetto
simile, ma qui è il simbolo del Cristianesimo ad essere fons vitae. E mentre nelle
rappresentazioni della Passione spesso sotto la Croce si trova il Cranio (Golgota), qui è dall’eternità che
promana la salvezza attraverso la Croce. Con i suoi ghirigori nella pietra, i
suoi intarsi, i suoi giri, il suo intrecciarsi in percorsi senza fine e
continuamente ripiegantisi su se stessi, il suo fiorire debordante da ogni
limite, l’ornamento del Khachkar ci narra qualcosa di noi e del labirinto che
in noi è e che noi siamo.
[continua]
Nicola F. Pomponio